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Tax havens: i 'rifugi' che diventano 'paradisi' fiscali
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I governi dei principali paesi interessati dalla crisi economica si sono concentrati sull’emergenza, focalizzando la loro attenzione quasi esclusivamente sulle misure di salvataggio del sistema finanziario, che però è ancor oggi vicino al collasso, almeno in alcuni paesi. Ma diviene sempre più pressante l’esigenza, se si vuole uscire dalle difficoltà, di rivedere tutta la regolamentazione e i sistemi di controllo delle istituzioni finanziarie, sia a livello nazionale che internazionale. E nei fatti comincia ad aumentare fortemente, nelle ultime settimane, il numero delle proposte, più o meno interessate, in merito.
Tra l’altro, sta venendo fuori una crescente consapevolezza che tra le misure da prendere per porre su nuove e più stabili fondamenta l’edificio della finanza internazionale un posto di grande rilievo spetta indubbiamente ad una molto più severa regolamentazione dei cosiddetti "paradisi fiscali", una cattiva traduzione dall’inglese "tax havens", che si può rendere meglio con l’espressione "rifugi fiscali"; si parla anche, a tale proposito, di paesi "off-shore".
Come è noto, il numero dei paesi che offrono agevolazioni - anche spinte - sia sul fronte fiscale che su altre tematiche, agli insediamenti delle imprese e alle attività dei privati è in aumento. I vantaggi offerti da tali località sono peraltro anche molto diversi da luogo a luogo.
Se le piazze off-shore non saranno soggette alle stesse regole dell’insieme delle piazze finanziarie dove si decidono le operazioni che daranno poi luogo ai trasferimenti verso l’ off-shore, le altre pur necessarie riforme della macchina finanziaria sarebbero in gran parte vane. Se invece i dirigenti dei grandi paesi, sulla base di nuove regole condivise, proibissero di inviare nei rifugi fiscali delle attività se non seguendo delle normative incisive, le stesse località incriminate sarebbero costrette a cambiare le regole, pena l’asfissia economica.
Sino ad oggi non è stato possibile regolare in alcun modo tale problema per la forza delle lobby bancarie, oltre che per la spinta delle grandi imprese multinazionali. Tra l’altro, le banche hanno in effetti tutto l’interesse a conservare questi luoghi per evadere dalle pressioni fiscali dei paesi in cui operano sia per se che per i propri clienti e per sottrarsi alle norme regolamentari, nascondendo molte delle loro attività.
Una indagine pubblicata dal Government Accountability Office degli Stati Uniti nel gennaio 2009 fornisce dei dati aggiornati e, per alcuni aspetti, sorprendenti sul fenomeno: intanto alcune delle grandi banche statunitensi che in questi mesi stanno ricevendo decine di miliardi di dollari di assistenza pubblica hanno nugoli di società domiciliate in tali paesi. Così la Citigroup, la più grande banca del mondo, ha ben 427 sussidiarie nei paesi off-shore, incluse 91 in Lussemburgo, 90 nelle Isole Cayman e 35 nelle Isole Vergini britanniche; la Bank of America ne possiede 115 e la Morgan Stanley 273. Prendendo in considerazione le prime cento imprese quotate del paese, l’indagine ha trovato che ben 83 hanno delle attività in dei rifugi fiscali; molte di esse godono, nello stesso tempo, di grandi contratti di fornitura con il settore pubblico.
L’indagine ha peraltro rilevato che, oltre al fatto che un certo numero di imprese non usa tale meccanismo, altre lo usano in misura relativamente ridotta. Così, per quanto riguarda lo stesso settore, mentre la Pepsi ha 70 società di quel tipo, la Coca Cola ne possiede "soltanto" 8; nel settore delle macchine movimento terra, mentre la Caterpillar ne ha 49, la J. Deere ne ha registrate 3. Si stima che attraverso tale meccanismo il tesoro degli Stati Uniti perda circa 100 miliardi di dollari di possibili entrate fiscali all’anno.
Eppure, sullo stesso quotidiano che più ha dato rilevanza al rapporto, una delle più rilevanti pubblicità è di una società specializzata nel fornire servizi di consulenza alle imprese e ai privati che volessero aprire un’attività in una di tali località. Sembra, tra l’altro, che possa costare anche molto poco.
Fonte: Finansol