Tavola della pace: delegazione a Kabul con i familiari delle vittime dell’11 settembre

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A dieci anni dall’attentato che l’11 settembre 2001 distrusse le torri gemelle di New York e dall’inizio della guerra in Afghanistan, la Tavola della pace e l’associazione americana dei familiari delle vittime dell’11 settembre Peaceful Tomorrows hanno deciso di andare insieme a Kabul per dire “basta alla violenza, alla guerra e al terrorismo”. Una delegazione italo-americana è a Kabul dal 31 agosto al 5 settembre per incontrare i familiari delle vittime del terrorismo e della guerra, le organizzazioni della società civile afgana e i rappresentanti delle principali organizzazioni internazionali presenti in Afghanistan. “Dopo dieci anni di ‘guerra al terrorismo’, la violenza, la miseria e l’insicurezza continuano a dominare la vita quotidiana del popolo afgano e dell’intera regione” – afferma la nota della Tavola della pace. “Osama Bin Laden è stato ammazzato ma l’Italia è ancora profondamente coinvolta in questa tragedia senza sapere come uscirne. Se ne parla malamente solo quando muore qualcuno dei nostri soldati. Poi nulla più. Eppure non possiamo smettere di porci alcune domande: a cosa è servito scatenare una simile guerra? Davvero non si poteva fare diversamente? E ora, cosa dobbiamo fare?”.

La missione di pace, organizzata grazie alla collaborazione di Afgana e del Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, si svolge alla vigilia della Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli del 25 settembre. La delegazione è composta da Paul Arpaia (September 11th Families for Peaceful Tomorrows), Flavio Lotti (coordinatore nazionale della Tavola della pace), Emanuele Giordana (coordinatore di Afgana), Mario Galasso (Assessore alla pace e alla cooperazione internazionale della Provincia di Rimini), Andrea Ferrari (Assessore alla pace e cooperazione Internazionale del Comune di Lodi), don Tonio Dell'Olio (Responsabile Internazionale di Libera), Luisa Morgantini (Associazione per la pace) e don Renato Sacco di Pax Christi.

“A dieci anni dall’11 settembre ho deciso di andare a Kabul per incontrare le vittime di questa tragedia infinita” – scrive Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace. “Insieme con i rappresentanti dei familiari delle vittime dell’11 settembre vogliamo compiere un gesto di solidarietà e di vicinanza nei confronti di un popolo martoriato dalla guerra e dall’assurda pretesa di fermarla con un’altra guerra. Dieci anni fa gli avevamo promesso libertà e democrazia e abbiamo finito con l’aggiungere altra violenza, altro dolore, altri lutti” – sottolinea Lotti. “La guerra ha clamorosamente fallito i suoi obiettivi, bisogna dunque smettere di farla e impegnarci a costruire, passo dopo passo, le condizioni per un futuro diverso” – continua Lotti. “Non si tratta solo di riportare a casa i nostri soldati senza spargere altro sangue, ma di imboccare decisamente una strada nuova. Per questa ragione, a Kabul incontreremo e ascolteremo alcuni dei protagonisti nascosti e ignorati del futuro dell’Afghanistan, quelle organizzazioni della società civile che alla democrazia e ai diritti umani ci credono davvero e che ci dobbiamo impegnare a sostenere”.

La missione intende dare seguito agli impegni assunti dalla società civile italiana in occasione delle Conferenze della società civile afgana di Kabul (marzo 2011) e di Roma (maggio 2011) organizzate da Afgana. “A pochi mesi dalla riunione che si prepara in Germania a dieci anni dalla Conferenza di Bonn che, nel 2001, aprì la strada al “nuovo Afghanistan”, la domanda vera è su quel che sta succedendo del processo di pace” – scrive da Kabul, Emanuele Giordana, coordinatore di Afgana. “Proprio per la festa di Eid, mullah Omar ha chiarito che a Bonn non ci andrà e dunque perdete ogni speranza o voi che ci contavate (gli europei). Karzai dal canto suo non sa bene come metterla. Le ultime indiscrezioni dicono che, durante la sua visita a Riad settimana scorsa, erano nella capitale saudita anche alcuni esponenti talebani. Ma pare sia stata solo contiguità, favorita dai sauditi, e che non ci sia stato nessun incontro”.

Una particolare criticità sta nell’ambiguità tra l’invio di aiuti allo sviluppo, interessi politici e militari. “In Afghanistan, la promiscuità tra aiuto allo sviluppo, sostegno alla società civile, operazioni militari e interessi di politica estera dei paesi donatori è particolarmente evidente” – scrive Giuliano Battiston in una sintesi per Lettera22 di una ricerca “La società civile afgana. Uno sguardo dall'interno” promossa dal network italiano Afgana. “ La novità non sta tanto nella politicizzazione degli aiuti, sia bilaterali sia multilaterali, che nel paese centroasiatico - come altrove - sono sempre stati legati a obiettivi di politica estera, ma nella tendenza dei donatori, subito dopo la caduta del regime talebano, a canalizzare gli aiuti allo sviluppo e umanitari attraverso le agenzie dell’Onu e le Ong, a causa dell’assenza di uno Stato funzionante, di una leadership politica riconoscibile e dell’iniziale riluttanza degli stessi donor a impegnarsi nello state-building”.

“Una tendenza – continua Battiston - che ha contribuito a modellare la mappa associativa del paese, contestualmente alla duplice e contraddittoria strategia adottata dai governi occidentali per stabilizzarlo e indebolire il sostegno alle forze antigovernative: da un lato la componente militare, dall’altra gli aiuti allo sviluppo; da un lato gli obiettivi del contro-terrorismo, dall’altro quelli del peacebuilding e della sicurezza umana delle comunità locali. In questo modo, si è proceduto secondo un doppio e contraddittorio binario, dando luogo a uno degli aspetti più controversi del coinvolgimento della comunità internazionale in Afghanistan, ovvero l’incoerenza tra obiettivi della sicurezza, dello sviluppo, della liberalizzazione e della pace, in altri termini il ‘fare la guerra mentre si costruisce la pace’”.

Un caso esemplare è quello del Provincial Reconstruction Team (PRT) italiano nel centro di Herat caratterizzato dalla fusione di attività civili e militari. Lo scorso 30 maggio il centro è stato attaccato: 7 civili sono morti e sono rimaste ferite almeno 20 persone, tra cui una decina di soldati italiani. “Un attacco che ha suscitato estrema preoccupazione nella popolazione locale, soprattutto quella che vive nei pressi del Prt, in pieno centro cittadino” – scrive Giuliano Battiston. Esasperati dalla presenza di una struttura militare in un’area residenziale, molti abitanti di Herat ne hanno chiesto il trasferimento altrove. “I cittadini chiedono che il Prt venga trasferito “lontano della città e dai civili” - spiega Abdul Qader Rahimi, a capo della Afghanistan Independent Human Rigt Commission (Aihrc). “Per i talebani il Prt è un obiettivo e stando vicino a un obiettivo simile i cittadini lo diventano a loro volta. Per quanto i membri del Prt dicano di non condurre operazioni militari di essere qui solo per la ricostruzione, resta il fatto che indossano uniformi militari. Non vedono che quella che è una protezione per loro stessi, diventa un pericolo per gli afghani?”.

Senza dimenticare gli interessi che ruotano intono all’oppio afgano. Lo sottolinea don Tonio Dell’Olio di Libera: “Agli occhi degli estranei, guerre e mafie sembrano solo lontani parenti. Eppure sono legate da vincoli di consanguineità insospettabili. Nel caso afgano troppo spesso la guerra delle mafie viene liquidata come argomento di secondaria importanza rispetto agli interessi geostrategici che vi si concentrano. Quando però scopriamo che dall'inizio del conflitto la produzione e il traffico di eroina è aumentato a dismisura e che sono proprio i proventi di quella produzione ad alimentare il conflitto di entrambe le fazioni, allora le ragioni di un interesse anche da parte di chi normalmente si occupa delle attività criminali, deve farsi più attento e severo” – denuncia don Tonio. “Sono a Kabul per chiedere ai responsabili delle agenzie delle Nazioni Unite quali sono i dati in loro possesso rispetto alla produzione e al traffico di oppio e di hashish di cui l'Afghanistan ha rafforzato la propria leadership. Quali sono gli strumenti di contrasto finora adottati per ridurre la produzione delle sostanze stupefacenti? Visto il totale insuccesso finora registrato, quali strategie si intendono adottare in futuro?”.

Tra i presenti anche Paul, portavoce del Coordinamento dei familiari delle vittime dell’11 settembre. “Sin dall’inizio hanno fatto sapere di non credere nella guerra come risposta alla tragedia di dieci anni fa. E di questa guerra sono stanchi tutti. Tutti tranne quelli che ne ricavano profitti” – scrive don Tonio nel suo ‘diario di viaggio’.

E forse questo, più di ogni altra cosa, spiega il protrarsi del conflitto. Non è un caso che una Commissione di indagine indipendente degli Stati Uniti ha rilevato nei giorni scorsi che negli ultimi dieci anni tra i 30 e 60 miliardi di dollari, destinati dagli Stati Uniti ai programmi di ricostruzione e di supporto alla popolazione in Afghanistan e Iraq, sono stati sprecati in opere inutili o in appalti e tangenti che si sono rivelati delle vere e proprie frodi. Nella sua relazione finale al Congresso, la Commission on Wartime Contracting (Commissione sugli appalti in tempo di guerra) ha scritto che la cifra potrebbe addirittura crescere nel momento in cui gli Stati Uniti smetteranno di supportare i programmi di ricostruzione: “molto probabilmente i governi di Iraq e Afghanistan non saranno in grado di finanziare e mantenere gli ospedali, le scuole, le e tutte le infrastrutture già costruite con i soldi dei contribuenti americani che a quel punto saranno da considerare soldi sprecati”.

A conclusione della seconda giornata del suo “diario di viaggio” don Tonio evidenzia che “Abbiamo cominciato a parlare con i rappresentanti di associazioni di cooperazione umanitaria, dei diritti umani, delle donne: la sensazione comune è che dopo dieci anni, di questa guerra si sia perso il bandolo. Nessuno più la vuole, ma nessuno ha il coraggio di dire basta. Se non la gente”. [GB]

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