Superare la concezione lavoristica dell’esistente

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Foto: Unsplash.com

Tra le prime domande che facciamo quando veniamo a contatto con una persona vi sono: “Cosa fai? Di che cosa ti occupi?”. Come se la persona dipendesse unicamente dalla sua occupazione. Come se una volta qualificati venissimo liberati dalle apparenze. Non è più il parlante che qualifica il soggetto. È la sua definizione che lo assoggetta. 

In questi tempi in cui si continua a morire di lavoro, alla costante ricerca di un lavoro stabile e sicuro, la domanda è mal posta. Anche chiedere “cosa fai” implica l’inquadramento all’interno di una categoria di per sé spersonalizzante.

Grazie a secoli di organizzazione del mondo del lavoro secondo superiori esigenze calate dall’alto il tempo di vita è venuto a coincidere con il tempo in cui siamo occupati. Il tempo non ci appartiene più. Tutto quanto facciamo, alle dipendenze altre o in autonomia, è una forma di schiavitù indotta. Abbiamo introiettato un pensiero, e un agire esterno, che non è il nostro. Esso ci appartiene nella stessa misura in cui ci sentiamo liberi di organizzare la nostra giornata, senza regole pianificate, predeterminate.

Ritorna, comunque, la solita domanda. Si lavora per vivere o si vive per lavorare? Gli esseri umani: genere talmente evoluto che ancora abbisogna di rendersi schiavo. Riusciremo mai un giorno a liberarci dalle catene?

Questo rapporto di dipendenza/servilismo è ancora più accentuato quando l’attività avviene nell’interesse altrui (rapporto di lavoro subordinato od atipico). E oggi è raro trovare un impiego che non crei stress e sia appagante. Frustrati, nervosi, in conflitto con i colleghi, abbiamo perso ogni stimolo...

Segue su: Comune-info.net

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