Sudan e Sud Sudan: due realtà in divenire

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La Federcalcio del Sud Sudan (SSFA) ha annunciato che per tutto il 2019 la nazionale affronterà i suoi impegni internazionali nello stadio di Kampala, la capitale dell’Uganda, indicata come “più economica e vicina” di Khartum in Sudan. È facile ipotizzare che abbia influenzato la scelta anche la possibilità di un tifo maggiore in Uganda, in considerazione dell’alto numero di sfollati ospitati nel Paese, piuttosto che in Sudan. La decisione, giustificata dall’avvio dei lavori di ristrutturazione dello stadio di Giuba, indica chiaramente lo stato delle relazioni internazionali tra Sudan e Sud Sudan, che resta teso dopo l’indipendenza ottenuta nel 2011. Anche la situazione umanitaria nel Paese rimane preoccupante dopo 5 anni di guerra civile divampata dal dicembre 2013 tra la fazione dinka collegata al presidente Salva Kiir e quella dell’ex vice-presidente Riek Machar, accusata di progettare un colpo di Stato. 

Lo scorso 12 settembre 2018 in Sud Sudan è stato firmato l’ennesimo accordo di pace fra le parti nel tentativo di porre fine alla guerra civile che sinora si calcola abbia determinato 400mila morti, 1,6 milioni di sfollati interni e circa 2,5 milioni di rifugiati. Più di 4 milioni di sud sudanesi vivono in condizioni di assoluta precarietà e si calcola siano 7 milioni a necessitare di aiuti umanitari urgenti, vivendo al di sotto della soglia di povertà assoluta; drastici sono i numeri che indicano il calo della scolarizzazione e della possibilità di soddisfare i bisogni medico-sanitari. A oggi il cessate il fuoco sembra sostanzialmente rispettato e si notano miglioramenti delle condizioni di sicurezza in varie aree del Paese anche se si registrano ancora aggressioni, stupri e attacchi incontrollati di milizie armate in varie zone; tuttavia i caschi blu dell’ONU (un effettivo di oltre 18mila persone in una delle missioni più grandi in corso) restano al loro posto. In attesa, infatti, di nuove elezioni fissate nel (lontano) 2022 è stato costituito un governo di unità nazionale che vede affiancare al presidente Machar altri 5 vicepresidenti a rappresentanza della struttura etnica del Paese, inclusi i gruppi di minoranza; il parlamento sarà ampliato fino a 550 membri per includere i rappresentanti di tutte le fazioni. Anche se è chiaro che il conflitto etnico non è il cuore di questa guerra, per tentare di dare soluzione alla crisi è stato previsto che un Comitato indipendente dovrà demarcare i confini dei diversi Stati federali del Sud Sudan, nel rispetto dei territori tribali. Compito nient’affatto semplice a cui si aggiunge quello di smilitarizzazione delle aree con presenza sociale (ad esempio dove si trovano le scuole) e la formazione di un esercito nazionale.

Uganda e, soprattutto, Sudan continuano a ricoprire un ruolo di ingerenza negli affari interni dello Stato, in particolare per finalità economico-commerciali connesse alla ricchezza straordinaria di risorse petrolifere del Sud Sudan prima che geo-politiche. Il rientro dei profughi interni ed esteri nelle proprie case resta un obiettivo, ma appare un iter lungo in considerazione dei timori e dell’assenza di fiducia verso un processo di pace ancora in uno stato embrionale. A destare preoccupazione è poi l’ondata di protesta contro il presidente Omar Hassan al-Bashir che serpeggia in Sudan da circa un mese. Per la prima volta si è creato un fronte unito delle opposizioni, la cosiddetta “Sudan Call” che chiede le dimissioni di Bashir, l’instaurazione di un governo di transizione, l’annullamento della Sharia e il ripristino effettivo della democrazia. A capo del Paese da quasi 30 anni, Bashir è indicato come candidato anche alle prossime elezioni del 2020 nonostante su di lui penda il mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale per 10 capi di accusa, tra cui il genocidio per gli avvenimenti accaduti in Darfur lo scorso decennio.Le manifestazioni in piazze, dal carattere pacifico, si stanno diffondendo a macchia d’olio nel Paese a causa della decisione di eliminare sussidi su benzina, pane zucchero e altri elementi di base, e sono represse duramente dalle forze di polizia che ha ammesso ci sono già state 24 vittime (una cinquantina invece secondo fonti delle organizzazioni per gli attivisti dei diritti umani). Tuttavia il presidente Bashir gode ancora dell’appoggio dei servizi segreti e dell’esercito, nonché sta operando come prezioso alleato delle democrazie occidentali in funzione di bastione conto il terrorismo islamico salafita e i flussi migratori di etiopi ed eritrei verso l’Europa. Per questa azione al Sudan sono stati messi a disposizione 400 milioni di euro, una somma che sovvenziona la gestione del potere da parte di Bashir tollerando, di fatto, le abominevoli violazioni dei diritti umani commesse e per le quali è sotto accusa. Riuscirà ancora a sottrarsi alla giustizia internazionale e a placare la sete di democrazia del popolo sudanese?

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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