Succede solo da McDonald’s?

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Foto: Unsplash.com

Una premessa doverosa – o forse paranoica – a questa breve riflessione natalizia su capitalismo, junk food, identità, religione e altri temi sparsi: mentre mi accingo a scrivere sono assalito dal dubbio che quanto segue assomigli al memorabile editoriale della scorso luglio di Alain Elkann su Repubblica, quando il rampollo della nota famiglia di industriali fu illuminato sulla via di Damasco – che nel suo caso era Foggia – mentre, a bordo di un treno Italo, si imbattè in alcuni giovani (definiti «lanzichenecchi») intenti in attività esotiche tipo ascoltare musica contemporanea e parlare a voce alta, ma soprattutto colpevoli di non riconoscere sua maestà intento a leggere Proust. Effettivamente lo spunto di quanto segue nasce (anche) da conversazioni origliate a bordo treno nelle scorse settimane: a mia discolpa, si tratta di treni regionali frequentati principalmente da pendolari.

Nelle scorse settimane mi è capitato con una certa regolarità di sentir parlare delle offerte proposte da McDonald’s in questo periodo, la più nota delle quali risalente al 30 novembre, giorno di inaugurazione dell’iniziativa denominata ufficialmente Winterdays ma informalmente conosciuta come «calendario dell’avvento di McDonald’s». L’offerta inaugurale consisteva nella vendita di un Crispy McBacon Menu Large a 3 euro, contro i quasi 10 di listino (4,74 se acquistato tramite app). Se quello è stato l’episodio più pubblicizzato e discusso a livello mediatico, si tratta tuttavia di un ciclo di offerte durante il quale la nota catena di fast-food ha proposto sconti su base quotidiana da fine novembre fino al giorno di Natale. 

Nel frattempo, la mia «bolla politico-mediatica» si interfacciava al fenomeno, e – come spesso accade – le narrazioni di questi due mondi (quello dei pendolari e quello della bolla) parlavano lingue completamente diverse. Questo è un problema con cui difficilmente riusciamo a fare i conti. Il problema non è chiaramente che la si possa pensare in modo diverso, il che anzi in questo caso è necessario per varie ragioni: gli impatti ambientali delle catene di fast-food, l’offerta culinaria drammatica per la salute degli umani e per la vita degli animali, le condizioni di lavoratori e lavoratrici e in generale tutto l’immaginario veicolato da McDonald’s e affini (non solo nel settore cibo) che da anni ha portato a parlare di McDonaldizzazione della società. Il problema è che mentre la mia bolla si indigna per questa «follia collettiva», l’identificazione col brand McDonald’s è più viva che mai presso ampi strati di popolazione, soprattutto giovanile, nonostante il marchio della grande M inizi ad avere i suoi anni (il primo ristorante, antesignano dell’attuale catena, fu aperto nel 1955). 

Io vorrei provare a mettermi nei panni dei fan di McDonald’s. La banalità delle banalità, almeno per chi crede in una sociologia atta a comprendere i significati di tutte le idee e azioni anche quando a noi paiono irrazionali, sbagliate, ecc., è che bisogna prendere sul serio questo fenomeno. 

L’indignazione si è in particolare concentrata sulle lunghe file, a volte sfociate in episodi di risse e congestionamento del traffico urbano, fuori dai McDonald’s di alcune città italiane che proponevano l’offerta del 30 novembre, quella del Crispy McBacon, «a soli 3 euro». Si è detto: «pensate a quanto tempo perdono in fila!»; «sono ore tolte alla vita, al tempo libero, all’impegno politico»; «tutta sta fila per risparmiare due euro!»; «quel risparmio economico lo avrebbero ottenuto lavorando meno di mezz’ora» (la mia preferita); «fanno tutto questo per mangiare cibo-spazzatura». Questo tipo di critiche perde completamente di vista l’elemento identitario costituito dal brand McDonald’s e dall’immaginario collettivo intorno a esso. È chiaro che poche persone fanno la coda per il panino in sé, qualcuna in più per il risparmio economico, tante (la stragrande maggioranza) fanno la coda proprio per fare la coda. E in questo non c’è niente di irrazionale. Sentono di partecipare a un rito collettivo, tanto quanto può esserlo un concerto: anche in un concerto non è tanto, o non è solo, la fruizione della canzone a fare la differenza, ma l’elemento narrativo e di appartenenza collettiva, e in parte la stessa epica della coda ai cancelli o la calca sotto palco, o la difficoltà nel deflusso post-show. 

Per molte persone l’offerta economica non è il punto centrale: se l’osteria «da Mario» facesse un’iniziativa simile, non avrebbe la stessa fortuna. Probabilmente non l’avrebbe nemmeno Burger King, per non citare che un competitor diretto di McDonald’s: in questo senso, la religione dei consumi assomiglia a una sorta di un oligoteismo (un po’ politeismo, un po’ monoteismo) che offre un’ampia schiera di dèi minori ma mantiene la centralità di alcune divinità cardinali. La qualità o il gusto del cibo è un aspetto marginale in questa partita; il risparmio economico anche, almeno per la maggior parte dei consumatori, più o meno giovani. Infatti, al di là delle conversazioni, tutte fra adolescenti, origliate da me sul treno regionale della val padana, l’iniziativa ha avuto successo anche presso fasce di popolazione più anziane, e dunque tendenzialmente meno povere o comunque con un potere d’acquisto diretto e non indotto dal ruolo di figli. Per gran parte di queste persone, McDonald’s assume la funzione brucespringsteen (o forse meglio dire la funzione maneskin o la funzione edsheeran): la lunga fila è esattamente la ragione della partecipazione, è la condivisione sui social del momento collettivo, la narrazione epica della comunità, l’argomento di dibattito (sul treno, sui social, al bar, ovunque sia) a fare la differenza...

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