Social network. Rete o comunità?

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A 86 anni, Zigmunt Bauman è uno dei più illustri studiosi della società postmoderna. Preoccupato osservatore di un mondo del quale denuncia la mancanza di punti di riferimento stabili, ha richiamato l’attenzione sulla liquidità delle relazioni e dei valori e sui rischi che comporta la perdita del senso di comunità. Il suo sguardo sui grandi cambiamenti sociali lo ha condotto a lanciare più volte l’allarme sulle conseguenze dei mutamenti in atto sul piano etico e su quello della concezione dell’uomo.

Il 9 aprile scorso, Bauman è intervenuto a Roma all’interno della manifestazione Libri come. Festa del libro e della lettura dove, con la lucidità che lo caratterizza, ha analizzato i cambiamenti che sono stati introdotti dallo sviluppo dei social network, prendendo le mosse dall’impressionante crescita di Facebook. Ripercorro qualche passaggio della relazione di Bauman, prima di introdurre qualche ulteriore elemento di riflessione.

L’ascesa di Facebook è un fenomeno imprevedibile e stupefacente. Da quando è nato, nel 2004, il sito ha visto un aumento esponenziale di utenti passando, fra il settembre 2006 e il settembre 2007, dal sessantesimo al settimo posto nella graduatoria dei siti web per traffico mondiale. Oggi occupa il secondo posto! La crescita quantitativa è sbalorditiva e oggi supera il mezzo miliardo di utenti: “La proprietà, scrive Bauman, informa che l'utente medio di Facebook ha 130 amici (amici su Facebook), e gli utenti vi trascorrono complessivamente più di 700 miliardi di minuti al mese. Se questa cifra astronomica è troppo grande da digerire e assimilare, sarà bene far notare che, se divisa in parti uguali fra tutti gli utenti attivi di Facebook, corrisponderebbe a circa 48 minuti al giorno per ciascuno. In alternativa, potrebbe corrispondere a un totale di 16 milioni di persone che trascorrono su Facebook 7 giorni a settimana, 24 ore al giorno”. Dimensioni di questo genere erano imprevedibili per uno strumento che era stato pensato inizialmente solo ad uso esclusivo degli studenti di Harvard da un ventenne, Mark Zuckerberg.

Ma perché mezzo miliardo di persone si è creato un profilo in rete? Ciò che è fondamentale per Bauman, che si richiama a Josh Rose – digital creative director dell'agenzia pubblicitaria Deutsch LA –, è considerare che Internet non è un ambiente che ci “sottrae la nostra umanità, ma un ambiente che la rispecchia; non si insinua dentro di noi: ci mostra ciò che sta dentro di noi”. Per comprendere la potenza dei social network, Rose ha chiesto ad alcuni amici di dire se essere in rete li fa sentire più vicini o lontani. Il problema è serio, perché la risposta non ha a che fare unicamente con uno strumento di comunicazione, ma con la nostra stessa umanità. “Mi sembra, ha scritto Rose in conclusione, che il tema comune alle risposte date al mio quesito sia stato ben riassunto dal mio amico Jason quando ha scritto: ‘Più vicino alle persone dalle quali sono lontano’. Poi però, un minuto dopo, ha aggiunto: ‘Ma forse anche più lontano dalle persone che mi stanno abbastanza vicino’, e ha precisato: ‘Mi ero confuso’. Ed effettivamente è una cosa che confonde. Oggi viviamo in un paradosso in cui due realtà apparentemente contrastanti coesistono l'una accanto all'altra. I social media ci avvicinano e al tempo stesso ci allontanano”.

La risposta è secondo Bauman estremamente significativa, perché indica in realtà che “ciò che si è acquistato è una rete, non una "comunità". E le due cose, come si scoprirà prima o poi (a condizione, naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare, che cosa sia la "comunità", occupati come si è a crearsi reti per poi disfarle), si rassomigliano quanto il gesso e il formaggio. Appartenere a una comunità costituisce una condizione molto più sicura e affidabile, benché indubbiamente più limitante e più vincolante, che avere una rete. La comunità è qualcosa che ci osserva da presso e ci lascia poco margine di manovra: può metterci al bando e mandarci in esilio, ma non ammette dimissioni volontarie. Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla nostra ottemperanza alle sue norme (sempre che una rete abbia norme alle quali ottemperare, il che assai spesso non è), e quindi ci lascia molto più agio e soprattutto non ci penalizza se ne usciamo. Però sulla comunità si può contare come su un amico vero, quello che "si riconosce nel momento del bisogno". Invece le reti esistono soprattutto per condividere momenti di svago, e la loro disponibilità a venire in nostro soccorso in caso di difficoltà non legate ai famosi "interessi condivisi" non viene quasi mai messa alla prova (e qualora lo fosse, la supererebbe ancor più raramente)”.

Ci troviamo qui di fronte a un dilemma, che è quello del rapporto fra la sicurezza che costruisce una comunità e la libertà pressoché assoluta che ci offre la rete. In fondo in internet, ci ricorda Bauman, per cancellare una relazione “basta premere il tasto delete o smettere di rispondere ai messaggi”.

In tutto questo anche i numeri hanno un significato. Se infatti in internet si possono costruire reti con migliaia di amici, rimane vero che noi abbiamo dei limiti nelle nostre reti di relazioni reali e, secondo quanto afferma Dunbar, non possiamo creare relazioni reali significative con un numero di persone superiore a circa 150. In questo quadro è chiaro che l’amplificazione del numero non è solo un dato quantitativo, ma ci impone di riflettere sul significato che assume per la persona umana. Il vero cambiamento, in altri termini, non è nel numero di relazioni significative che si possono creare, ma nella loro natura. E qui Bauman si richiama allo psichiatra Serge Tisseron, per il quale “i rapporti considerati significativi sono passati dall'intimité all'extimité, cioè dall'intimità a ciò che egli chiama estimità”. Qual è la natura di questa estimità? Il fatto che la dimensione più privata della persona venga messa in pubblico, e il fatto che si scelga una piazza virtuale pubblica per parlare del proprio privato. La società che ne deriva è quella che Bauman definisce “società-confessionale, una società di un genere finora inaudito e inconcepibile, in cui si piazzavano microfoni dentro i confessionali, cioè le cassette di sicurezza e i ricettacoli per eccellenza dei più segreti fra i segreti – il genere di segreti che si potevano rivelare soltanto a Dio o ai suoi messaggeri e plenipotenziari terreni –, e in cui quei microfoni erano collegati ad altoparlanti sistemati nelle pubbliche piazze, luoghi fino a quel momento destinati ad esporre e dibattere faccende di interesse comune e di urgenza condivisa”.

Tale propensione a raccontare i tratti più intimi di sé non è tuttavia un tratto generazionale. Nonostante in Gran Bretagna un recente studio abbia messo in rilievo come il 61% dei ragazzi fra i 13 e i 17 anni abbia già un profilo nei social network, in realtà il fenomeno è trasversale: “Questa nuova propensione per le confessioni pubbliche non si può spiegare con i fattori specifici dell'età, e comunque non soltanto con quelli”. Il problema è che da un lato “la nudità fisica, sociale e psichica è all’ordine del giorno” e dall’altro “quanti hanno a cuore la propria invisibilità sono destinati a essere respinti, messi da parte o sospettati di reato”.

Ciò che scompare, in questa società segnata dalla presenza invasiva di quelli che Bauman definisce “confessionali elettronici”, non è solo la cancellazione del confine fra pubblico e privato, ma anche il fatto di “aver fatto dell'esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere”. Il rischio, conclude Bauman, è quello di scivolare in una situazione nella quale gli uomini giungano non solo per mettersi a nudo, ma che per promuovere se stessi finiscano per vendere se stessi, diventando “i promotori delle merci e al tempo stesso le merci che promuovono”. Da questo punto di vista, Facebook non sarebbe altro che uno dei luoghi nei quali si realizza la mercificazione del consumatore: “Ma allora, si chiede in conclusione Bauman, lo strabiliante successo di Facebook non sarà dovuto al fatto di aver creato il mercato su cui, ogni giorno, necessità e libertà di scelta s'incontrano?”.

L’analisi, cui ci ha abituato Bauman, è come sempre lucida e profonda. Tuttavia mi sembra che essa lasci in ombra due questioni, che credo altrettanto importanti. La prima in relazione allo strumento e al suo uso. Se da un lato è vero che il fenomeno dei social network ha i tratti di un confessionale pubblico, nel quale si mettono in vetrina i lati più nascosti di sé, stiamo però assistendo anche a un rapido cambiamento nel loro utilizzo. Per fare un solo esempio, basterebbe osservare la funzione che hanno assunto questi siti nelle rivoluzioni nordafricane dove i blogger, tutti molto giovani, hanno preparato e coordinato le rivolte proprio attraverso i social network. Un uso, peraltro, cominciato già due o tre anni addietro con i collegamenti sui social network fra i giovani nordafricani e i movimenti pacifisti e nonviolenti dei balcani. Non esiste quindi solo il rischio di costruire una visione delle relazioni umane superficiale, virtuale, vuota: questo è uno degli aspetti del problema, non l’unico. Accanto a questo esiste l’uso del mezzo di comunicazione come strumento per la costruzione di relazioni reali e per lo sviluppo della lotta politica. Mettere l'accento unicamente sugli aspetti problematici del fenomeno è necessario, ma non dobbiamo sottovalutare i segnali di cambiamento in atto: ci troviamo infatti di fronte a un uso consapevole al servizio del cambiamento sociale e politico che ha poco a che fare con la dimensione puramente “esibizionista”, individualista e anticomunitaria dei social network.

Per questo, ed è la seconda questione, occorre chiedersi quale sia la relazione fra questi strumenti e la costruzione della democrazia. Se da un lato l’approccio più adolescenziale potrebbe infatti essere un pericolo per la democrazia, distogliendo di fatto dall’impegno concreto nelle relazioni umane, dall’altro in queste piazze virtuali non ci sono solo ammiccamenti e pulsioni adolescenziali: l’utilizzo crescente che ne fanno associazioni culturali, gruppi politici, organizzazioni internazionali, ci mette di fronte a una comunicazione caratterizzata da contenuti più complessi e orientati proprio alla comunicazione di contenuti altrimenti ignorati dai media e alla modificazione delle relazioni sociali.

Certo, il rischio che questa potenzialità possa essere posta a servizio di spinte distruttive non è evitabile. Tuttavia il crescente utilizzo per veicolare messaggi costruttivi sul piano sociale e politico non va sottovalutata e forse è uno dei segnali più interessanti che ci viene dal mondo incontrollabile dei social network.

Alberto Concida Cooperazione tra Consumatori

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