Scuola: quella mensa ideale lontana anni luce

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Insetti e vermi nella pasta, sostanze nocive vicino alle scorte di cibo, pentolame sporco, arrugginito e incrostato di calcare, spazi angusti e inadatti, per non parlare degli appalti poco trasparenti e del personale spesso senza tutele. Gli scandali che riguardano le mense scolastiche italiane – come il più recente, che ha investito il comune di Benevento e su cui sono ancora in corso controlli e verifiche – creano sempre un certo sgomento, come sempre succede quando l’incuria e il malaffare vengono perpetrati sulla pelle dei più piccoli e indifesi. L’alimentazione in età scolastica, poi, è una delle questioni più importanti e delicate, e anche senza scomodare questi casi così eclatanti, si caratterizza come uno dei più difficili da risolvere e gestire, anche perché va a toccare diversi fattori insieme: dalla onnipresente corruzione, appunto, alla reale scarsità di fondi di molti comuni, dai fronti agguerriti dei genitori che da una parte riempiono i figli di merendine confezionate e dall’altra pretendono – giustamente – il meglio dal sistema scolastico, fino ai regolamenti a volte troppo rigidi che impediscono l’introduzione di novità e buone pratiche sperimentali.

Quante polemiche, ad esempio, ha sollevato l’idea del cosiddetto “menu europeo” nelle mense, lanciata quest’anno dal Comune di Roma in occasione del semestre di presidenza italiana? L’iniziativa, tutt’ora in corso, prevede 15 menù ispirati ad altrettanti paesi dell’Unione Europea, da proporre due o tre volte al mese, con tanto di menu pieghevoli con le spiegazioni dei piatti proposti, che vanno dal fish and chips del Regno Unito alla paella spagnola, dal gulash ungherese ai wrustel e pancetta. Se il fine era positivo, ovvero “far conoscere agli studenti la cultura gastronomica di tanti paesi diversi e di aumentare la consapevolezza di appartenenza dell’Italia all’Europa”, il progetto ha provocato la protesta di alcune parti politiche e soprattutto dei genitori, che lamentano piatti semivuoti con pietanze spesso definite come “cibo spazzatura” e inadatte a una dieta a misura di bambino. Tanto che alla fine il comune ha optato per introdurre, accanto ai suddetti menù, anche il classico e “mediterraneo” piatto di pasta al pomodoro, per scongiurare il rischio che i bambini si alzino da tavola ancora affamati.

Il menù europeo è solo un esempio. Ma il problema dei bimbi che tornano a casa affamati è molto comune, ed è dovuto a diversi fattori che contano non solo la quantità ma anche la qualità e varietà del cibo proposto, insieme ai soliti, quasi insormontabili, problemi di organizzazione e di gestione delle risorse e del menu (si pensi anche alle allergie e intolleranze diagnosticate a un numero sempre maggiore di bambini), in quella difficile coniugazione tra gusto e giusto apporto nutritivo che ogni mensa scolastica dovrebbe garantire. Il fatto che lo spreco abbia assunto oggi proporzioni inquietanti (secondo recenti indagini la quantità di cibo che finisce nella spazzatura oscillerebbe infatti dal 40 al 60%) è un paradosso solo apparente, in quanto è tutto collegato. E le famiglie, nonostante siano spesso molto attive con comitati e proposte, non sempre aiutano. Basta dare un’occhiata all’ultimo report “Okkio alla salute” promosso dal Ministero della Salute e dal MIUR, secondo cui, sul campione preso in esame, i bambini in sovrappeso risultano essere il 20,9%, con un 9,8% di bambini obesi, compresi quelli severamente obesi che da soli sono il 2,2%. Sempre dai dati 2014 emerge che “l’8% dei bambini salta la prima colazione, il 31% fa una colazione non adeguata (ossia sbilanciata in termini di carboidrati e proteine) e il 52% fa una merenda di metà mattina abbondante. Il 25% dei genitori, poi, dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e/o verdura e il 41% dichiara che i propri figli assumono abitualmente bevande zuccherate e/o gassate”. Ancora: tra le madri di bambini in sovrappeso o obesi, il 38% ritiene che il proprio figlio sia sotto-normopeso e solo il 29% pensa che la quantità di cibo da lui assunta sia eccessiva. Inoltre, solo il 41% delle madri di bambini fisicamente poco attivi ritiene che il proprio figlio svolga poca attività motoria.

Questo non significa che la scuola debba rinunciare a farsi veicolo di una corretta educazione alimentare e promuovere l’importanza di una dieta sana, equilibrata e sostenibile. Anzi, gli esempi virtuosi, che pure ci sono, dimostrano che proprio l’istituzione risulterebbe un luogo privilegiato in cui una sinergia positiva tra comune, aziende, genitori consapevoli e volenterosi, esperti e associazioni potrebbe incidere moltissimo in questo senso, anche perché i numeri sono alti: secondo i dati dell’organizzazione Action Aid – che ha messo in atto un progetto nazionale indirizzato proprio alle mense scolastiche e intitolato “Io mangio giusto” – in Italia il 50% dei bambini con meno di 14 anni usufruisce della refezione scolastica”, e si stima che “a scuola vengano consumati 380 milioni di pasti all’anno: oltre 2 milioni di pasti per ogni giorno di scuola. Ma qual è l’ideale di mensa che istituzioni, scuole, commissioni e comitati dovrebbero sforzarsi di raggiungere? Le linee guida del nostro paese (stilate nel 2010) danno tutta una serie di raccomandazioni, come la garanzia di un apporto calorico pari al 35% del fabbisogno giornaliero, in cui “i grassi non dovrebbero eccedere il 30% dell’energia del pasto”, e con “preferenza per le proteine vegetali rispetto a quelle animali”. Nell’arco della settimana, poi, si raccomanda “una porzione di frutta, una di verdura, una di cereali e una di pane ogni giorno; legumi, carne e pesce una o due volte a settimana; formaggi e uova una volta a settimana” (in caso di dubbi, l’associazione Altroconsumo ha messo a punto un test online con cui è possibile valutare se la dieta è equilibrata e se il pasto è corretto a livello nutrizionale). E poi c’è la questione del bio e del chilometro zero che, nonostante spesso presenti dei costi più elevati e un livello di organizzazione più elaborato, per molte scuole è diventata la buona prassi.

Anche i “5 punti” elencati da ActionAid per una mensa sostenibile vanno in questa direzione, con l’utilizzo il più possibile di “prodotti a basso impatto ambientale, senza ogm, stagionali e, dove possibile, prodotti localmente in modo da ridurre il numero di passaggi tra produttore e consumatore e valorizzare il legame tra cibo e territorio, mente il cibo che proviene dai Paesi in via di sviluppo dovrebbe provenire dalla filiera del commercio equo e solidale”. Il sistema mensa, poi, dovrebbe ridurre al massimo gli sprechi e i rifiuti, e garantire il rispetto di chi ci lavora, dell'ambiente e dei consumatori; infine – e qui torniamo all’inizio – i Comuni devono farsi “promotori di gare d’appalto trasparenti per l’affidamento dei servizi di ristorazione”.

Quasi un’utopia, se si pensa che un’indagine della Uil di Roma e del Lazio ed Eures, pubblicata all’inizio dell’anno, ha paragonato il sistema delle mense scolastiche romane quasi a quello di Mafia Capitale. Eppure, lo strumento è potente: “Parlare di dieta sostenibile a scuola – scrive ancora ActionAid – significa introdurre un’educazione alimentare corretta, proporre scelte di consumo consapevole, sperimentare azioni di condivisione e cambiamento tra bambini, insegnanti, genitori e amministratori. La mensa scolastica può essere vista come un sistema agroalimentare su scala ridotta, con tanto di attività di trasformazione, distribuzione, consumo e persino produzione di cibo, oltre che di gestione dei rifiuti e riduzione degli sprechi. Può diventare un sistema locale di cibo ‘giusto’ e sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico”.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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