Rimettersi in piedi e guardare al futuro

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Spesso arrivano con nient’altro che il vestito che hanno indosso, non conoscono la lingua, non di rado hanno vissuto un’esperienza drammatica nel loro paese d’origine, o durante quel viaggio rocambolesco e pericoloso che le ha portate a varcare i confini della Fortezza Europa. Insomma, per le donne migranti, i problemi non finiscono certo con l’arrivo a destinazione. Per fortuna, però, non tutte vengono abbandonate a loro stesse. A Roma ad esempio, tra le diverse realtà che si occupano di assistenza ai migranti, c’è il Centro Astalli, la sede italiana del servizio dei Gesuiti per i rifugiati, che si prende cura appunto di tutte quelle persone che lasciano il loro paese perché costrette a causa di guerre o di persecuzioni, e che hanno perciò diritto a presentare la domanda di asilo e per il riconoscimento dello “status di rifugiato”. Unimondo ha incontrato l’operatrice del centro e responsabile della comunicazione Donatella Parisi.

Come nasce il centro?

In Italia il Centro Astalli è attivo dal 1981, quindi da 33 anni. Nasciamo come una distribuzione di pasti gestita da un gruppo di volontari, che poi negli anni si è ampliata e diversificata nei servizi, mirati all’assistenza: oggi abbiamo una mensa che distribuisce 400 pasti al giorno, due ambulatori medici, 4 centri d’accoglienza a Roma (due per uomini, uno per famiglie rifugiate e uno per donne rifugiate), una scuola di italiano, uno sportello legale e uno socio-lavorativo. Insomma, cerchiamo in qualche modo di accompagnare i richiedenti asilo da quando arrivano in Italia fino a che sono in grado, prima o poi, di camminare con le proprie gambe. Oltre che a Roma, lavoriamo a Catania e Palermo, con servizi di prima accoglienza, e a Trento e Vicenza con dei progetti di seconda accoglienza.

Quali sono i flussi che affrontate?

Ogni anno incontriamo circa 21mila richiedenti asilo e rifugiati nella sede di Roma, e siamo sui 34mila in tutta Italia. L’età media varia dai 18 ai 30 anni, perché comunque il viaggio che affrontano è molto faticoso e pericoloso, oltre che molto costoso, e si investe su chi ha più possibilità di farcela: quindi si tratta soprattutto di uomini, giovani e in salute.

Eppure le donne non mancano...

Certo, sono comunque una percentuale significativa, soprattutto se poi consideriamo determinate nazionalità. In questo periodo, ad esempio, dall’Eritrea arrivano molte donne che sono scappate dal servizio militare obbligatorio: vengono arruolate per due anni, ma in realtà non possono mai uscirne e diventano quasi delle schiave, serve dei militari che le usano e ne abusano a loro piacimento. Non bisogna dimenticare che le donne che incontriamo al centro Astalli sono al 90% donne che hanno subito violenza, vittime di abusi e tortura, spesso vissuta nel proprio paese di origine. Come nel caso delle congolesi che raccontano di essere state in carcere, dove, come sappiamo, accade l’indicibile. Ma la violenza arriva anche durante il viaggio: in mano ai trafficanti sulle rotte che passano per il deserto, sulle imbarcazioni, nelle carceri libiche. E ci vuole molto tempo e molto lavoro prima che queste donne riescano a raccontare le loro esperienze traumatiche. Tra l’altro, molte arrivano incinte perché sono state violentate durante il viaggio e non perché, come molti credono, arrivano per far nascere qui il loro bambino.

Il vostro lavoro in cosa consiste?

Qui abbiamo un centro che accoglie fino a 35 donne richiedenti asilo e rifugiate. Sono donne di varie nazionalità, prevalentemente africane, ma nel 2013 ci sono state anche delle donne iraniane, e non solo. Per ogni persona che arriva, c’è una presa in carico da parte dei servizi sanitari e psicologici, e in molti casi anche psichiatrici, perché questa è la prima riabilitazione da fare. Contemporaneamente, si prepara un accompagnamento che sia il più progettuale possibile: insieme, si decidono degli obiettivi, che possono essere l’autonomia alloggiativa e lavorativa, ma prima di tutto l’apprendimento della lingua italiana. Il periodo in cui possono stare da noi è in genere di sei mesi, prorogabile in alcuni casi particolari. E le donne, spesso, sono dei casi particolari: quando arriva una ragazza che è vittima di tortura, che non parla italiano, che ha delle ferite profonde sul corpo e nella psiche con cui fare i conti, ci possono volere molto più di sei mesi per ricominciare a guardare al futuro con serenità.

E poi, ovviamente, c’è il percorso socio-legale...

Esatto, anche perché molte donne che arrivano in Italia non sanno neanche di dover presentare la domanda di asilo. In genere, le incontriamo per la prima volta alla mensa, che è spesso il primo approdo di tutti i rifugiati che arrivano a Roma, dopo il passaparola a stazione Termini (così come la mensa della Caritas, o Sant’Egidio e così via).  Durante la distribuzione dei pasti, in cui donne e bambini hanno la priorità, oltre alla presenza dell’ambulatorio aperto per chi ha bisogno di vedere un medico, ci sono anche gli operatori legali che spiegano a chi ne ha bisogno come potersi muovere in questo senso: “Hai fatto la richiesta d’asilo? Sai cosa significa? Sai come si fa? Sai che per farla è necessario un indirizzo?” E infatti, grazie a un accordo col Comune, via degli Astalli 14/A è diventato l’indirizzo ufficiale per circa 10mila rifugiati qui a Roma.

Quali sono le maggiori difficoltà iniziali?

Sono tantissime, ed è per questo che una delle figure più importanti è quella del mediatore culturale. Immaginate una donna che non si è mai fatta visitare da un medico o che non ha mai avuto nessun contatto con la medicina occidentale, entrare in un ambulatorio dove ci sono medici che possono essere donne ma anche uomini e che le dicono che deve essere visitata. Qui intervengono i mediatori, che la tranquillizzano, la accompagnano e consigliano, e in qualche modo s’instaura un rapporto di fiducia fino a che non diventano un punto di riferimento per tutto. Certo non è facile, soprattutto quando arriva il momento di fare i conti con la società italiana: ci sono un’infinità di cose che per noi sono assolutamente scontate, ma che per chi viene da un altro contesto culturale, da un altro paese e un altro continente, non lo sono affatto. Ad esempio, far comprendere a queste donne che bisogna fare un tirocinio formativo non retribuito, solo per “fare curriculum”...

Un lavoro delicato...

Per fortuna a darci man forte ci sono anche i volontari. Al Centro Astalli ne abbiamo circa 400: ci sono medici, avvocati, persone comuni che insegnano l’italiano, fanno le notti, trascorrono del tempo con le rifugiate e spesso sono la loro prima relazione positiva dopo un lunghissimo periodo di paura, diffidenza, pericolo ed esperienze umane estremamente negative. Il volontario, che viene al centro perché ha una motivazione alta, una spinta ideale molto forte e anche del tempo da dedicare a questo tipo di lavoro, riesce pian piano a far capire alla persona che ha di fronte che si può credere ancora nel genere umano. Insomma, non è solo per il valore numerico che per noi sono così preziosi (senza, chiuderemmo domani mattina), ma proprio per la qualità del loro operato.

Il Centro Astalli gestisce anche una comunità per nuclei familiari. In questo caso, l’assistenza alle donne come funziona?

È un approccio completamente differente perché bisogna attuare un progetto di autonomia, di recupero e riabilitazione molto sfaccettato: nella famiglia, ognuno ha i suoi tempi di integrazione e contemporaneamente il nucleo nel suo insieme si rapporta al nuovo contesto. I bambini sono in genere formidabili: s’inseriscono nella scuola, imparano subito la lingua e spesso sono i primi mediatori nei confronti dei loro genitori, un ponte importante che li unisce alla nuova società. Arrivano anche nuclei in cui l’uomo ha un ruolo predominante rispetto alla donna perché così viene impostata la famiglia nel loro contesto culturale, e allora è lui che parla e deve cercare lavoro: questo un po’ penalizza la donna, che può rimanere in Italia per tanti anni senza riuscire ad imparare l’italiano, e c’è il rischio che rimanga un po’ isolata. Ecco perché nel centro si lavora molto su un suo percorso di autonomia: anche lei deve imparare l’italiano, deve accompagnare i bambini a scuola, parlare con le maestre, imparare un lavoro. Certo, si tratta di scardinare dei capisaldi culturali per metterne di nuovi, e non è semplice: ecco perché l’accoglienza di una famiglia rifugiata è mediamente più lunga rispetto a quella di una donna sola, che riesce più facilmente a diventare autonoma, trovare una sistemazione e un lavoro. Poi, certamente è dura per tutti, ma ci sono anche delle storie a lieto fine, di donne straniere, sole o con famiglia, che si sono rimesse in piedi e pian piano hanno ripreso in mano le redini del proprio futuro.

Dal punto di vista dell’accoglienza, le istituzioni a che punto stanno?

C’è molto da fare. Quello che il centro Astalli chiede da tempo è che venga innanzitutto riconosciuto a tutti i rifugiati il diritto all’accoglienza, perché è tutt’altro che garantito. Il comune di Roma, ad esempio, ha una lista d’attesa molto lunga anche solo per entrare in un centro, soprattutto per gli uomini. Che poi, non chiediamo altro che l’applicazione della direttiva europea sugli standard minimi di accoglienza, almeno per i richiedenti asilo.

E invece la società italiana?

Anche qui dipende. C’è senz’altro un’opinione pubblica che si muove nella direzione giusta, come ce n’è tanta altra che fa ancora molta fatica. A questo proposito, il centro Astalli porta avanti un progetto che si chiama “Nei panni dei rifugiati”, per le scuole superiori, in cui i ragazzi affrontano un percorso didattico sul tema dell’asilo, e alla fine incontrano in classe, di persona, un rifugiato o una rifugiata che racconta la propria storia. Questo è molto importante perché ci siamo resi conto che, attraverso l’incontro diretto, tanti pregiudizi, tante idee sbagliate in qualche modo vanno a cadere. Ascoltandoli, i ragazzi si rendono conto che non sono poi così diversi: anche il rifugiato andava a scuola, aveva una vita sentimentale, amava uscire con gli amici, solo che a un certo punto è successo qualcosa che ha stravolto per sempre la sua vita. Così, attraverso il guardarsi negli occhi in qualche modo ci si riconosce. Non nascondo, però, che all’inizio ci sono tante resistenze, i ragazzi sono un po’ lo specchio della società. “Sono troppi, non sappiamo più dove metterli, rubano, puzzano”: tutti questi luoghi comuni, spesso sentiti anche dai genitori, loro li riportano senza filtri. Per questo la funzione della scuola è fondamentale, e noi crediamo che investendo sulle nuove generazioni la società possa migliorare.

Anna Toro

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