Rapporto Censis sulla Comunicazione: se “uno vale un divo”

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Oggi tutti possono essere famosi. E’ questa una delle principali caratteristiche dell'era biomediatica, cioè l’era in cui conta soprattutto condividere la propria vita in rete, dove “uno vale un divo”, mentre il divismo vero, che aveva impregnato gran parte della cultura di massa del '900 grazie al cinema, ormai non esiste più. Ne sono convinti gli autori del 15° Rapporto Censis sulla comunicazione, ricerca che ogni anno monitora i consumi dei media analizzando i cambiamenti nella dieta mediatica degli italiani e la loro ricaduta sulla vita del Paese. Non a caso, quest’anno il report è dedicato proprio alla “fine dello star system”, quale effetto della cosiddetta “disintermediazione digitale”, ovvero la caduta dei filtri tra coloro che comunicano, grazie all’uso principalmente di smartphone e social network. Lo dimostrano i dati: “La metà degli italiani (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (tra i giovani under 30 la percentuale sale al 56,1%). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia fondamentale per essere una celebrità (la pensa così il 42,4% dei giovani). Mentre un quarto (il 24,6%) sostiene che semplicemente il divismo non esiste più”. 

“Il divismo era un congegno di proiezione identitaria, aspirazionale, che aveva un impatto concreto sulla società – spiega il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii, durante la presentazione della ricerca – Oggi solo il 10% considera i divi come modelli a cui ispirarsi”. E se prima l’analogia con la stella aveva davvero il suo senso (il divo era “qualcosa di straordinario, lontano, lo potevamo guardare ma non afferrare, la sua luce ci arrivava anche quando non c’era più, in un gioco di presenza-assenza fondamentale”), oggi tutto è cambiato. “Pensiamo ai protagonisti dei reality show come il ‘Grande Fratello’ o ‘L’isola dei Famosi’ – commenta Gian Paolo Tagliavia, Chief Digital Officer Rai – sono visibili sempre ma soprattutto lo sono in condizioni non aspirazionali, con un’accezione non sempre positiva. O pensiamo alle star del web, che diventano famose postando video girati nella loro cameretta. Oggi non è più importante essere straordinario ma essere autentico”. Certo, tra farlo ed esserlo veramente ce ne corre. Tagliavia parla di un’autenticità che viene in qualche modo costruita, come nel caso dei selfie. “Proprio perché l’oggetto della foto e chi la fa sono la stessa persona, i selfie non possono mai raccontare la verità”. La loro fama è poi legata alla tempestività e alla quantità (“se smetti di postare scompari”). Eppure il modello di business dei cosiddetti influencer secondo Tagliavia va tenuto d’occhio e studiato: “Nel campo del food e della moda, ad esempio, hanno bilanci anche più interessanti delle media company tradizionali”.

Il Censis parla poi di una vera e propria mutazione antropologica, sempre legata all’enorme utilizzo di internet, smartphone e social network: il nuovo rapporto cita infatti tutta una serie di “nuovi rituali, piccoli tic e manie mascherate” che ormai fanno parte del nostro quotidiano. Come controllare le notifiche del telefono appena sveglio o come ultima cosa prima di andare a dormire (lo fa il 50,9% di chi ha uno smartphone), o consultare le previsioni meteo nel corso della giornata (48,4%). Ancora, uno su tre (il 30,1%), preferisce inviare messaggi vocali invece che digitare sulla tastiera, e il 25,8% non esce di casa senza portare con sé il caricabatteria del cellulare. Contemporaneamente, la classifica dei principali problemi dell'era digitale secondo gli italiani riflette “una visione molto individualistica, prevalentemente centrata su di sé”: per il 42,5% degli italiani il problema numero uno di internet è la diffusione di comportamenti violenti, dal cyberbullismo alle diffamazioni e intimidazioni online. Al secondo posto, il 41,5% colloca il tema della protezione della privacy. Segue il rischio della manipolazione delle informazioni attraverso le fake news (40,4%) e poi la possibilità di imbattersi in reati digitali, come le frodi telematiche (35,5%). “Solo a grande distanza vengono citati problemi di sistema, come l'arretratezza delle infrastrutture digitali del nostro Paese e l'inadeguatezza dei servizi online della pubblica amministrazione, oppure le minacce all'occupazione che possono venire da algoritmi, intelligenza artificiale e robotica”. 

Interessante è anche il risvolto politico: in merito al ruolo svolto dai social network nella comunicazione politica, gli italiani si dividono tra fautori e detrattori in due parti quasi uguali. “Il 16,8% ritiene che svolgano una funzione preziosa, perché così i politici possono parlare direttamente ai cittadini, senza filtri. Il 30,3% pensa che siano utili, perché in questo modo i cittadini possono dire la loro rivolgendosi direttamente ai politici. Invece, il 23,7% crede che siano inutili, perché le notizie importanti si trovano sui giornali e in tv, il resto è gossip. Infine, il 29,2% è convinto che siano dannosi, perché favoriscono il populismo attraverso le semplificazioni, gli slogan e gli insulti rivolti agli avversari”. Tra gli effetti dell’utilizzo spregiudicato dei social da parte della politica c’è la polarizzazione dei propri fedeli a discapito della visione di sintesi. Che è ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni (da Trump, a Salvini e non solo). “Nella società liquida, fare il nuovo è fare polarizzazione, devi esagerare” commenta il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, riprendendo la fortunata espressione coniata dal filosofo Zigmunt Bauman. Una società liquida che può impantanarsi, quando tutto diventa un meccanismo e prodotto di mercato; o che può continuare a scorrere, quando il contenuto ritrova la sua centralità, e quando questo fiume viene monitorato e compreso nei suoi cicli, proprio “per non restarne prigionieri”. Quel che è certo è che, secondo il Censis, siamo entrati ormai in un’era – quella della disintermediazione – in cui il soggetto è sempre al centro: “Il senso comune oggi si forma in quella galassia pulviscolare che sono gli account che ciascun utente di internet ha”. 

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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