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“Quante divisioni ha il Papa?”
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Foto: Youtube.com
Dopo la vittoria di Trump si stanno manifestando, in maniera tanto virulenta e radicalizzata quanto confusa e disorientata, posizioni che si intrecciano trasversalmente, rispetto alla guerra in Ucraina (e ai conflitti armati in generale), nei diversi schieramenti politici. Tuttavia sia chi ha sostenuto che era impossibile una vittoria ucraina sui russi e bisognava essere prudenti, se non proprio negare, aiuti militari a Kiev (Lega, M5s) sia coloro i quali (quasi tutte le altre forze politiche) hanno puntato ad un sostegno militare del governo di Zelensky, “fino alla vittoria”, poggiano su un preciso e condiviso assunto ideologico: è la forza militare dei paesi, la sua capacità di scatenarsi in guerra, che determina il predominio di qualsivoglia scelta politica. “Quante divisioni ha il Papa?”. Lo chiese Stalin, a Yalta; oggi i governanti europei si stanno affrettando, ognuno per sé, a darci i loro sconsiderati numeri.
Aung San Suu Kyi affermava: “Se si vuole la democrazia, bisogna incarnarne i principi; bisogna essere coerenti in politica. Se si vuole cambiare un sistema in cui la forza è lecita, allora devi dimostrare che il lecito è forza. Non si può utilizzare la forza per affermare ciò che si ritiene lecito e poi insistere che il lecito è la forza. Non si inganna la gente in questa maniera”. La leader birmana ribadiva, durante la lotta ai feroci ed ottusi generali golpisti, quel rapporto strettissimo tra mezzi e fine su cui Gandhi aveva costruito la sua azione politica e la scelta della nonviolenza. I soggetti, quelli sinceramente democratici, in Italia, e in Europa, che si stanno dissennatamente schierando per uno spaventoso e pericolosissimo riarmo, funzionale a regolare con la guerra ogni conflittuale rapporto internazionale, non possono avere smarrito completamente la terribile lezione di 80 anni di dopoguerra e gettare nel cestino il lascito fondamentale della nostra Costituzione, i valori sui quali è nata l’Europa unita e i pilastri sui quali è stata costruita l’ONU che nel suo Preambolo indicava chiaramente come “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Il “fondamento”.
Sembra impossibile che le forze democratiche continentali non abbiano appreso la lezione che in tutte - tutte! - le guerre dal ‘45 ad oggi, “difensive” od “offensive” che si definissero, proprio quei valori, quella dignità umana e quei diritti sono andati in fiamme allo sparo del primo colpo, poi in cenere, nella risposta del secondo. Non è possibile che non abbiano guardato come, proprio nel centro del nostro continente, sono caduti regimi tirannici, oppressivi, fondati sulla violenza, la brutalità e la repressione militare, senza che sia stato quasi sparato un colpo. Non è possibile che non abbiano tenuto conto delle centinaia situazioni di successo, nel pianeta intero, di lotte disarmate e nonviolente, a fronte di un grandissimo insuccesso delle avventure armate e militari, come illustrato con scientifico rigore nell’importante lavoro di Erica Chenoweth. Sembra incredibile che non abbiano ancora scelto, con decisione e determinazione, la strada della lotta nonviolenta, della noncollaborazione, delle mille forme di resistenza attiva e disarmata, per opporsi a tirannie ed ingiustizie, e come - proprio percorrendo queste strade - si possono aprire spazi di mediazione e di dialogo anche nei conflitti più virulenti, lasciando sempre “una via d’uscita dignitosa all’avversario” come raccomandava Aldo Capitini.
Il gruppo dei “lasciateci in pace” è intriso di un chiaro opportunismo politico, quello de “la pace con la guerra”, come ha ribadito ancora oggi Von der Leyen, completamente appiattito su un impianto ideologico - una credenza magica - quello della presunta garanzia data dal predominio guerresco e militare, confutato centinaia di volte nella storia, strabordante orrori e fallimenti, sul quale peraltro si è fondato da sempre il grande male del XX secolo, il nazionalismo, che nella sua versione migliore ha prodotto disuguaglianze, razzismi e sciovinismi, e in quella peggiore ha portato a una delle più grandi tragedie dell’umanità, la tirannide nazifascista che ha trascinato il pianeta nel gorgo della seconda guerra mondiale.
Può generare solo grande confusione manifestare per l’Europa unita senza un chiaro ed inequivocabile “no alla guerra”, “no al riarmo”, trovandosi al fianco, al contrario, tanti soggetti, sociali e politici, a partire dai maître à penser, in coro quasi unanime sulla gran parte dei media del paese, che inneggiano ad essi. Sarebbe una grande ipocrisia, proprio oggi, quando da Bruxelles si chiede - si vorrà imporre - ad ogni paese, di percorrere singolarmente questa scellerata via, accostando ancora più benzina ai focolai sovranisti e nazionalisti sempre più forti e diffusi in ampie parti del continente. Chissà se quanti siedono nelle aule di Strasburgo, o nella Commissione Europea, o davvero si sentono “cittadini europei” avranno letto anche solo qualche riga del Manifesto di Ventotene, la prima pietra su cui è stata costruita l’Unione? Di certo non ne hanno compreso l’essenza, lo spirito profondo, se oggi prendono la strada che si sta prefigurando. Gli antifascisti Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrivevano - profetici, purtroppo - nel primo dei paragrafi dei “Compiti del dopo guerra”:
“Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuate dietro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovranno fare i conti. Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare sia esse che i loro capi più miopi sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera. Se questo scopo venisse raggiunto, la reazione avrebbe vinto. Potrebbero pure questi stati essere in apparenza largamente democratici e socialisti; il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Compito precipuo tornerebbe ad essere a più o meno breve scadenza quello di convertire i popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzirebbero in un nulla, di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra”.
Oggi, quei padri fondatori, non la riconoscerebbero, questa Europa allo sbando.