Quale futuro nel disordine mondiale?

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All’indomani dell’annuncio dei dazi da parte del presidente americano Trump, gli analisti concordano nel constatare un cambio epocale dell’ordine internazionale. Con queste premesse si è tenuto a Venezia, presso l’M9 - Museo del ‘900 di Mestre, il Festival Internazionale di Geopolitica Europea. Gli esperti intervenuti si sono confrontati sull’attuale situazione internazionale e hanno offerto diverse chiavi di lettura del nuovo ordine multipolare. 

A dare impulso alla riflessione è stato proprio l’impatto del cambio di postura statunitense sulla scena internazionale, che ci ha proiettati alla fine del sistema mondiale finora conosciuto. 

L’ordine liberale internazionale – con la sua globalizzazione – sembra essere finito. Se da un lato ha attraversato diverse crisi, la sfida del terrorismo internazionale, il trauma della crisi economico - finanziaria e la guerra in Ucraina, per citarne alcune, dall’altro il sistema si è avvitato sulle sue stesse contraddizioni: su tutte, la farraginosità delle istituzioni internazionali con i loro limiti e le grandi disuguaglianze a livello globale. 

Ci sono state anche scelte politiche che l’hanno condannato, come nel caso dell’invasione dell’Iraq e le conseguenze delle decisioni nel primo mandato di Trump. Da allora ha avuto inizio ciò che gli esperti chiamano il “divorzio inaudito” tra l’ordine internazionale liberale e il Paese che l’aveva fondato e promosso. 

Mentre il resto dell’Occidente vive lo strappo con l’alleato, Trump sta riportando in auge lo slogan di Reagan di imporre la pace attraverso la forza. Ne ha però dato un significato diverso, perché Reagan intendeva la forza statunitense come responsabilità – anche ideologica – di utilizzare il soft power per esportare il sistema democratico e i diritti umani. Agli antipodi, Trump utilizza quel motto per riferirsi al recupero di un’identità storica che pertiene al continente americano e nordamericano. 

Il presidente americano ha, di fatto, recuperato la Dottrina Monroe e il Corollario Roosevelt di non ingerenza, immaginati al tempo in funzione anticoloniale, oggi un’autolimitazione del proprio interesse strategico in chiave antieuropea. Una visione che spiegherebbe, ad esempio, le mire su Groenlandia e Panama.

Il punto di vista americano sembra essersi modificato anche nei confronti della Russia. All’epoca della guerra fredda c’era stato l’ampliamento della sfera d’influenza americana verso l’Europa in risposta alla minaccia russa.

Oggi Trump sembra vedere la guerra in Ucraina come una sostanziale sconfitta russa, poiché non è riuscita a dimostrare la sua capacità di invasione di un Paese al confine con l’Europa. La Russia sarebbe quindi venuta meno come minaccia. Infatti, Trump sta recuperando il dialogo con Mosca con l’obiettivo strategico di allentare “l’amicizia senza limiti” dei russi con i cinesi. 

Proprio la competizione fra Stati Uniti e Cina sembra essere il nodo che fa convergere diverse visioni. 

Gli esperti sembrano concordare sul fatto che non si tratti di una nuova guerra fredda, di cui – almeno per il momento – mancherebbe quello stesso afflato ideologico e la capacità dei due blocchi di permeare i contesti regionali. 

Ciononostante, anche la Cina avrebbe cambiato postura negli ultimi anni, soprattutto a partire dall’ascesa di Xi Jinping nel novembre 2012 come Segretario del Partito comunista cinese e nel marzo del ’13 come presidente della Repubblica Popolare cinese. 

L’Occidente non aveva compreso subito come la Cina si percepisse, sottovalutando i suoi intenti. 

Una delle prime dichiarazioni di Xi Jinping fu che il secolo della vergogna e dell’umiliazione nazionale era finito. Il riferimento era all’umiliazione subita dalla Cina a partire da metà ‘800, dalle Guerre dell’Oppio in poi, ad opera delle potenze imperialiste e colonialiste. 

Da quel periodo la Cina si era ripresa faticosamente e ora Xi Jinping dichiarava che era pronta ad abbandonare il precetto di “evita la luce, coltiva l’oscurità” di Deng Xiaoping. In base a questa visione, la Cina doveva perseguire una crescita interna ed evitare le sovraestensioni imperiali che hanno portato alla crisi degli altri grandi imperi. 

Così l’approccio cinese del basso profilo in politica estera è stato progressivamente abbandonato. Un esempio emblematico è il progetto infrastrutturale partito nel 2013 della “Via della Seta”. Si tratta di un progetto che non ha pari nella storia dell’umanità, perché interamente finanziato dalla potenza cinese. 

La Cina dispone di una riserva economica risparmiata dal lavoro di decenni del popolo cinese come fabbrica del mondo, accompagnato da un deterioramento ambientale notevolissimo. 

L’idea è quella di investire quest’enorme riserva economica in un’infrastruttura di collegamento per soddisfare un sistema produttivo che privilegia le esportazioni. Il progetto veniva presentato come di esclusiva natura commerciale ma, ciò che gli occidentali non avevano capito, era che si passava da un’espansione commerciale ad una di tipo egemonico. 

Un’intenzione che si rivelerà lentamente e che l’amministrazione americana comincerà a cogliere solo dal 2015. 

Ma se la svolta epocale coincide con l’avvento di Xi Jinping, è bene allargare lo sguardo alla storia millenaria dell’Impero cinese. Allora, si potrà capire la visione della Cina che corrisponde alla mentalità di un impero che è durato più di due millenni. L’ambizione di Xi Jinping sarebbe di tornare a quella visione. 

Va da sé che la competizione con gli Stati Uniti, rimasta fino ad oggi fredda, sembra stia iniziando a scaldarsi.

Dal canto suo, gli Stati Uniti hanno iniziato a reagire in modo più assertivo con l’amministrazione Obama. Prima gli americani guardavano ingenuamente alla Cina come ad una potenza responsabile, che si inseriva nel processo di globalizzazione a guida statunitense. 

L’ottimismo americano prosegue fino al 2010, mentre la retorica cinese è quella dell’ascesa pacifica, che non rivendica l’Asia e il Pacifico come un’area di propria ed esclusiva pertinenza. 

Con il 2010 la visione inizia a cambiare. È Barack Obama ad avviare la fase di ripiegamento internazionale degli Stati Uniti con il cosiddetto “Pivot to Asia” e la ricalibrazione degli interessi americani verso l’Asia e il Pacifico. 

Ad esprimere il cambiamento di approccio USA nei confronti della Cina sono i documenti strategici del 2010 e del 2015. Nel 2010 il clima è ancora per lo più di fiducia cooperativa, anche se si inizia a notare l’aumento delle spese militari cinesi. Invece, il documento del 2015 è influenzato sia dall’ascesa di Xi Jinping, che dal revisionismo russo del 2014 con l’annessione della Crimea. 

Il presidente Obama afferma che i rapporti possano ancora essere cooperativi, ma che per gli Stati Uniti sia meglio gestirli da una posizione di forza. 

Fra il primo e il secondo Trump, il presidente Joe Biden comincia a infarcire il discorso geopolitico con la questione valoriale. 

Giunti fino ad oggi, dove sta andando il mondo? 

Difficile dirlo. Fino a pochi mesi fa si pensava che l’obiettivo cinese fosse quello di ripensare le regole del sistema internazionale. Mentre oggi, con Trump alla Casa Bianca, queste regole sono state sostanzialmente messe in discussione dagli stessi Stati Uniti. 

La competizione globale richiama il contesto regionale dell’Indo-Pacifico, dove si colloca la questione Taiwan. 

La Cina ritiene Taiwan una necessità esistenziale, perché considera l’isola un problema interno e il simbolo della competizione globale tra Oriente e Occidente. Da un punto di vista politico, Taiwan sarebbe l’ultimo tassello del compimento della nazione cinese, il riscatto dalle umiliazioni coloniali. 

Da un punto di vista militare, Taiwan rappresenta l’aspirazione frustrata di una potenza globale di non riuscire a risolvere una diatriba territoriale a pochi km dalle sue coste. 

Da un punto di vista strategico, Taiwan è vitale per la proiezione cinese perché garantisce un’apertura verso l’Oceano Pacifico. 

Negli anni, Taiwan è diventato un attore fondamentale della filiera tecnologica: la Cina però non sarebbe interessata a Taiwan per i semiconduttori, ma perché la filiera tecnologica sarebbe ancora a guida occidentale, statunitense. 

Tuttavia, qualora la Cina intendesse effettivamente occupare militarmente Taiwan, sconvolgerebbe gli equilibri mondiali, mettendosi dalla parte del torto. Inoltre, un’eventuale invasione dell’isola sarebbe un’operazione militare incredibilmente complessa. Un’operazione per cui la Cina dovrebbe disporre di uno strumento militare enorme per avere le capacità militari di sostenere anche un eventuale scontro con gli Stati Uniti. Senza dimenticare il possibile coinvolgimento di altri attori, su tutti Giappone e Corea del Sud. 

Oltre che alle capacità degli alleati in zona, non è un caso che la politica americana sia quella di rafforzare le difese di Taiwan e di trasformare l’isola in un cosiddetto “porcospino”, 

Gli esperti dicono che non è prevedibile cosa vorrebbe fare Taiwan in caso di invasione; ma ciò che l’Ucraina ha insegnato al mondo è che non bisogna mai sottovalutare la volontà dei popoli di difendersi.

Rimangono aperte più di una domanda. 

Considerate tutte queste variabili, la Cina disporrebbe delle capacità militari per sostenere un simile sforzo? Dal momento che nello stretto di Taiwan passano circa il 65% delle merci mondiali, converrebbe alla Cina occupare militarmente un player fondamentale per i traffici globali, compresi quelli cinesi?

Sul piano pratico sembrerebbero prevalere le ragioni della politica. Ad oggi appare controproducente l’ipotesi di un’invasione militare, mentre la strada più percorribile per i cinesi sarebbe quella di convincere la popolazione taiwanese ad assoggettarsi. 

Dall’altra parte dell’Oceano, gli USA non si ritengono più la nazione indispensabile del mondo. Gli americani si sarebbero resi conto di non essere in grado di reggere la pressione di due conflitti alla volta. Quindi gli Stati Uniti intendono concentrarsi altrove, mentre Trump porta avanti il dialogo con la Russia, coinvolgendola in tutti i nuovi dossier. 

Nel mezzo resta l’Europa che, per quanto vecchia, non sembra avere ancora deciso cosa fare da grande. 

Maddalena D'Aquilio

Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.

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