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Preservare la biodiversità riducendo l’inquinamento sensoriale
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Foto: Elissar Haidar da Unsplash.com
Ghiandaie, nocciolaie. O anche Garrulus glandarius e Nucifraga caryocatactes, passeriformi della famiglia dei Corvidi che, al di là del loro splendido piumaggio e della loro rassicurante presenza per le passeggiate nei boschi di conifere, in particolare quelli dove prevalgono i pini, sono specie fondamentali per la sopravvivenza delle foreste: possono infatti diffondere ogni anno tra i 3 e i 4 mila semi degli alberi che frequentano, contribuendo in maniera essenziale non solo alla propria alimentazione, ma anche alla riproduzione vegetale. C’è però un problema causato, indovina un po’ da chi, proprio dall’uomo.
Una ricerca condotta lo scorso anno in New Mexico sulla ghiandaia di Woodhouse (Aphelocoma woodhouseii) e pubblicata su The Royal Society ha messo in luce come l’inquinamento acustico di lunga durata influisca pesantemente sulla capacità di reperire fonti alimentari e di costituire nuclei comunitari, con effetti negativi che perdurano anche dopo la cessazione della fonte di disturbo. Non solo: ha dimostrato anche come, nelle aree abbandonate dalle ghiandaie a causa dei forti e ininterrotti rumori provocati dai compressori per l’estrazione di gas naturale, la presenza dei pini fosse di 4 volte inferiore. Risultati che non fanno che confermare una chiave di lettura ampiamente condivisa dalla comunità scientifica: una migliore comprensione del modo in cui gli animali percepiscono il proprio ambiente può dirci molte cose di come interpretiamo il mondo e di come potremmo preservarlo, possibilmente minimizzando i danni lì dove fosse impossibile eliminarli a monte.
Anche perché questo è solo un esempio tra i tanti che purtroppo abbiamo a disposizione: il giornalista scientifico Ed Yong, nel suo libro An Immense World: How Animal Senses Reveal the Hidden Realms Around Us si è occupato di sistemi di comunicazione tra umani e animali, soffermandosi sulla percezione del mondo proprio da parte di questi ultimi, ma il tema è stato nel tempo anche oggetto di riflessioni filosofiche soprattutto negli Stati Uniti, dove per esempio il filosofo Thomas Nagel si è addentrato in questioni profonde come il carattere irriducibilmente soggettivo dell’esperienza cosciente e la connessione con un punto di vista molto diverso che va oltre la nostra capacità di immaginarlo, come per esempio nel caso del pipistrello e del suo apparato sensoriale così diverso dal nostro. Se però non possiamo capire davvero cosa si provi ad essere un pipistrello – o un qualsiasi altro animale – abbiamo strumenti scientifici e capacità di ricerca e osservazione che ci permettono di perfezionare la nostra abilità di immedesimazione che possono far luce su alcune conseguenze delle nostre azioni: pensiamo per esempio a delfini, capodogli e orche, che come i pipistrelli utilizzano l’ecolocalizzazione per orientarsi e sopravvivere. Non ci vuole uno sforzo esagerato a immaginare quali danni possiamo apportare noi umani all’affidabilità dei loro organi di senso se con le nostre azioni creiamo condizioni nelle quali gli animali siano impossibilitati a usarli o invalidati nel loro utilizzo. Anche perché noi umani siamo i soli a poter invadere e distruggere i regni sensoriali di altre specie.
Sappiamo bene quanto possiamo essere invadenti, egoisti e insensibili: lo dimostra tra le altre cose la nostra ossessione per l’illuminazione artificiale, che disorienta gli abitanti della notte provocando pesanti alterazioni dei bioritmi e fallimenti riproduttivi e migratori di portata straordinariamente preoccupante per la fauna selvatica (e in parte anche per noi, che tra i numerosi effetti collaterali della nostra fame di luce abbiamo il fatto che 1/3 dell’umanità non vede più la via Lattea).
Sono solo alcuni esempi dei molti casi a supporto di un fenomeno noto come “inquinamento sensoriale”, secondo il quale, aumentando la quantità di stimoli antropogenici nel mondo, stiamo costringendo le altre specie a modificare i loro sensi per assomigliarci, distraendoli dalle loro effettive esigenze percettive e mettendoli in pericolo obbligandoli ad abitare ecosistemi sensoriali totalmente diversi.
La presenza umana è purtroppo fonte della maggior parte delle sorgenti inquinanti per i sensi degli altri abitanti del Pianeta: aerei e strade sono per esempio le cause più evidenti di inquinamento acustico, ma anche le attività estrattive che prevedono trivellazioni ed esplosioni non sono da meno, né sopra la terra né sotto i mari. E anche se molti animali si sono adattati a molte di queste forme di disturbo, modificando i loro comportamenti sia individuali che a livello comunitario, per molte specie questo rimane un problema invalidante che richiede un adattamento molto più lento e faticoso, con il rischio di produrre anche popolazioni più omogenee e dunque più vulnerabili. La biodiversità è un dono che va preservato, perché non si tratta solo di perdere specie, ma di perdere opportunità, per tutti: perché anche misure semplici possono fare la differenza e, a differenza di problemi più complessi come per esempio quello delle conseguenze dei cambiamenti climatici, la riduzione dell’inquinamento sensoriale, per lo più sonoro e luminoso, è a portata di mano, con rilievi che indicano che anche misure ridotte possono fare una grande differenza. Quale interesse troviamo, dunque, nel non affrontare il problema?
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.