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Post-lavoro, un’utopia di libertà
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Foto: Unsplash.com
Helen Hester e Will Stronge parlano della loro ricerca: come operare nella pratica il rifiuto del lavoro, la riduzione dell'orario, il rapporto con le tecnologie, le prospettive di genere e l'importanza della cura.
Oggigiorno il lavoro viene molto spesso identificato come l’unica strada percorribile per la realizzazione individuale. Per rendere le persone più produttive e altamente performanti, molte aziende sono inclini a rappresentare il lavoro come un piacere o un gioco: i lavoratori sono spronati a divertirsi lavorando come i professionisti dei lavori creativi e i magazzinieri di Amazon impegnati a rispettare lo slogan «Work hard, have fun, make history».
Ne abbiamo parlato con Helen Hester e Will Stronge, autori di Post-work. What it is, why it matters and how we get there (Bloomsbury Academic, 2025).
Un noto aforisma, presente in varie lingue, afferma: «Fai un lavoro che ami e non dovrai lavorare un singolo giorno della tua vita», un’esortazione che, come riportate nel vostro libro, può facilmente essere rigirata in «Fai un lavoro che ami e non smetterai di lavorare un singolo giorno della tua vita». Qual è la vostra definizione di lavoro e cosa intendete con post-lavoro?
HH: Esistono moltissimi modi diversi di intendere cosa sia il lavoro. Noi siamo partiti da questa posizione pragmatica: il lavoro è un problema politico; quando identifichiamo un’attività come lavoro, la stiamo di fatto segnalando come un terreno potenziale di intervento e contestazione, qualcosa che potrebbe essere altrimenti. Naturalmente, esistono delle caratteristiche a seconda delle quali ogni attività ha una probabilità più o meno elevata di essere socialmente riconosciuta come lavoro – ad esempio, se genera o meno plusvalore, se è retribuita, se comporta uno sforzo consapevole ecc. Tuttavia, molte delle definizioni di lavoro comunemente accettate rischiano di trascurare o minimizzare alcune sue forme (la più ovvia è il lavoro non retribuito di cura, ma ce ne sono molte altre, dalla gestazione al lavoro ombra). Secondo noi, per essere il più esaustivi possibile, il lavoro va definito come una categoria di attività intenzionali, retribuite o meno, che sono mezzi per un fine piuttosto che un fine in sé.
Alla base del post-lavoro troviamo invece una variegata tradizione di pensiero e pratiche che condividono la concezione del lavoro come problema politico. Possono attingere da ogni tipo di disciplina e posizione – anarchica, comunista, socialdemocratica – ma, in tutte le sue forme, mirano a smantellare l’etica del lavoro e a sfidare il suo dominio sulle nostre vite. In linea generale, i sostenitori del post-lavoro cercano di rivalorizzare, ridistribuire o ridurre il lavoro. Superano il rifiuto del lavoro, per quanto cruciale, per riflettere sulle modalità con cui quel rifiuto può operare nella pratica. Questo atteggiamento è uno degli aspetti che distinguono un approccio post-lavoro da un approccio anti-lavoro.
Partiamo da uno dei tre verbi appena menzionati: ridurre. Perché la riduzione dell’orario lavorativo è così rilevante? Qual è il retaggio storico e filosofico di questa lotta?
WS: Dato che il lavoro è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine, dovrebbe quindi occupare il minor tempo possibile, per lasciare spazio ad attività scelte più liberamente. Il lavoro può essere un mezzo per la propria realizzazione, ma in moltissimi casi non lo è, la sua riduzione fa quindi parte di un progetto di libertà.
Oltre che a un livello filosofico, le ragioni per la riduzione risiedono anche a un livello molto più immediato ed esperienziale. Il fardello del lavoro è ben noto a tutti: dall’impatto moderno sulla salute mentale (stress, burnout, esaurimento) alle modalità fisiche con cui può deformare il corpo o causare un tale stress fisico da costringere al pensionamento anticipato. Il dibattito odierno sul lavoro dovrebbe sempre fare riferimento alle zavorre e alle sofferenze del lavoro, perché troppo spesso parliamo di lavoro solo nella sua forma idealizzata...