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Politica di difesa europea: processo confuso e senza democrazia
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di Achille Lodovisi
La definizione della politica estera e di difesa dell'UE (PESD) investe direttamente la sostanza effettuale della costruenda 'cittadinanza europea'. Oggi, con sempre maggior insistenza, la questione viene sbrigativamente liquidata con la richiesta di incremento delle spese militari, provvedimento indicato come una panacea capace di portare a soluzione i problemi ed i contrasti di natura politica esistenti, riducendo la vicenda ad un esercizio di pura contabilità. Si tratta di una visione per larghi tratti in sintonia con quella che i vertici statunitensi hanno espresso sin dal 1998, anno in cui Francia e Gran Bretagna, con la dichiarazione congiunta di Saint Malo, indicarono per l'UE l'obiettivo di possedere in futuro la capacità autonoma di agire nelle crisi internazionali per mezzo di uno strumento militare credibile. Negli Stati Uniti, così come accadeva nella Mosca di Breznev nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, si è combattuti tra la richiesta pressante di un sostanziale contributo in termini di aumento delle spese militari e della partecipazione attiva degli alleati europei alla strategia delle guerre 'preventive' (divenuta ormai insostenibile per gli Usa dal punto di vista economico e politico), ed il timore che l'Europa - già sufficientemente forte dal punto di vista economico e industriale -, mettendo a punto una politica estera ed uno strumento militare comune, provochi lo sgretolamento della postura egemonica statunitense nel Vecchio Continente, acquisendo la capacità di pianificare, scegliere le priorità e le strategie, ed attuare in maniera autonoma la propria politica di difesa. La possibile 'quadratura del cerchio' - si pensa a Washington - potrebbe essere rappresentata dall'adozione, da parte europea, sotto la supervisione statunitense, dello stesso modello di gestione della politica estera e di difesa (inclusa ovviamente quella relativa agli stanziamenti militari) oggi dominante negli Stati Uniti, l'unico - ritengono negli Usa - a offrire la garanzia di efficacia al piano per la difesa europea senza comportare rischi politici elevati. L'adesione fideistica degli europei agli obiettivi della politica statunitense permetterebbe a Washington di affrontare, con maggior tranquillità, una questione critica per la definizione del proprio incerto status di superpotenza, ovvero il timore che l'incremento delle spese militari da parte di una possibile grande potenza (candidate great power)1 quale l'UE possa portare ad una alterazione degli equilibri di potere nel mondo.
Le spese militari europee oggi
Gli alleati europei degli Usa non sembrano per il momento intenzionati, secondo gli ultimi dati resi disponibili dal SIPRI2, ad aderire alle richieste statunitensi basate sull'opinione che l'importanza della politica di sicurezza comune europea risieda nel mero aumento degli stanziamenti per la difesa. Tra il 1998 ed il 2002 le spese militari dei paesi europei aderenti alla NATO (Turchia esclusa) sono cresciute in termini reali da 150 miliardi di dollari (cost. 2000) a 152,3 (+ 1,5%), con due picchi di 153,2 miliardi negli anni 2000 e 2001. Si tratta di un livello di investimenti inferiore del 15,5% rispetto a quello del 1988. A titolo di raffronto si ricorda che negli Usa la contrazione tra il valore del 1988 e quello del 2002 è stata del 21,3%. Se si considera l'incidenza degli stanziamenti dei paesi europei della NATO sulle spese militari mondiali nel periodo 1988-2002, emerge come essa si sia mantenuta mediamente sul 21,5% nell'arco temporale 1988-1997 per poi far registrare i valori di 21,7%, 21,9%, 21,2% nel triennio 1998-2000, percentuali che sono diminuite al 20,7% e 19,4% in corrispondenza con l'avvio della fase di espansione del bilancio militare statunitense. Tale tendenza si ripete con lievissime differenze considerando l'incidenza delle spese militari dei paesi membri dell'Unione Europea (21,3% nel 1988; 19,6% nel 2002), e dell'Unione allargata a 25 stati che si concreterà nel 2004 (22,1% nel 1988; 20,2% nel 2002).
Sul lungo periodo (1988-2002) si evidenza come a partire dal 1998, dopo un decennio di contrazione, gli stanziamenti per la difesa degli alleati europei abbiano iniziato lievemente ad aumentare. Indubbiamente su tale tendenza hanno esercitato un influsso notevole gli eventi politici e militari che hanno accompagnato la guerra contro la Iugoslavia della primavera del 1999, tra i quali spicca l'adozione della Defence Capabilities Initiative (DCI) da parte della NATO3.
Per quanto concerne l'incidenza delle spese militari sul PIL, se si assume come limite funzionale alle esigenze stabilite dall'Alleanza atlantica la soglia del 2% - richiesta come 'biglietto d'ingresso' ai paesi che entreranno a far parte della NATO nel 2004 (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Litania, Romania, Slovacchia, Slovenia) -, sono ben nove i paesi attualmente membri che la superano (Repubblica Ceca, Francia, Grecia, Norvegia, Polonia, Portogallo, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti), stando alle previsioni per il 2002 pubblicate dalla stessa NATO4. I restanti paesi (Belgio, Danimarca, Germania, Ungheria, Italia, Lussemburgo, Olanda, Spagna e Canada) restano al di sotto del limite. Le valutazioni del SIPRI, relative all'anno 2001, divergono da quelle dell'Alleanza atlantica per lo stesso anno nei casi di Italia (2% per il SIPRI; 1,7% per la NATO), Norvegia (1,8% per il SIPRI; 2,2% per la NATO), e Polonia (1,9% contro 2%), mentre l'Istituto di ricerca svedese non presenta dati per la Repubblica Ceca.
Una certa dose d'inerzia nel seguire il modello affermatosi negli Stati Uniti emerge anche dal confronto tra la ripartizione delle spese militari per categorie nel periodo 1998-2002 dei paesi europei della NATO e quella degli Usa (cfr. Tabella 1). Infatti, contrariamente a quanto avviene oltre Atlantico, gli stanziamenti degli stati d'Europa (Turchia esclusa) sono assorbiti per più del 40% dalle spese per il personale, a dimostrazione di quanto lungo, differenziato da paese a paese, e oneroso sia il passaggio dal sistema basato sulla leva a quello incentrato sui soldati di professione; le spese per l'acquisto di armamenti e servizi e la ricerca e sviluppo sono notevolmente inferiori, sia nei valori assoluti che nell'incidenza sul bilancio, a quelle degli Stati Uniti, dove però non si può dire che le scelte operate nella politica militare abbiano sortito risultati lusinghieri.
La dimensione politica
Le cifre, infatti, hanno poco senso se non si inseriscono nel quadro politico, proprio perché le prestazioni degli apparati militari sono e restano dei mezzi al servizio di una visione complessiva, e non è assolutamente detto - lo dimostra la stessa recente esperienza storica - che l'efficacia nell'affrontare le complesse problematiche della sicurezza sia sinonimo di corsa agli armamenti e militarizzazione della spesa pubblica.
La crisi economica che attualmente sta interessando, seppure in misura diversa, tutti i paesi dell'UE può offrire una spiegazione convincente alla riluttanza degli europei a seguire gli Stati Uniti nell'espansione delle spese militari. Si tratta di una scelta che tiene in considerazione l'impopolarità di decisioni, che - di fronte ai gravi problemi economici di milioni di famiglie, ai sacrifici richiesti in termini di protezione sociale, diritti e qualità della vita per mantenere i parametri di Maastricht, ed al diffuso sentimento contrario a scelte belliciste - puntassero sull'impiego delle già limitate risorse pubbliche nell'espansione delle spese militari. In questa luce, il piano proposto dal ministro della Difesa italiano Martino ha suscitato numerose e forti perplessità: per recuperare il 'ritardo' nei confronti dell'apparato bellico Usa, l'UE dovrebbe permettere ai singoli stati di aumentare notevolmente le spese militari soprattutto in ricerca e sviluppo e per le acquisizioni di nuovi sistemi d'arma, sottraendo tuttavia tali spese dal calcolo del disavanzo pubblico, allo scopo di evitare che l'espansione dei bilanci per la difesa metta a rischio il Patto di stabilità; in tal modo, mentre le spese per la pubblica istruzione, la sanità, lo stato sociale, la ricerca e sviluppo nei settori civili, le infrastrutture, il miglioramento della qualità ambientale, ecc., rimarrebbero soggette ai vincoli strettissimi relativi al rapporto tra deficit e PIL previsti dal trattato di Maastricht, gli investimenti pubblici per gli armamenti sarebbero liberi di crescere a dismisura. Lo stesso Commissario dell'Unione Europea Pedro Solbes ha riconosciuto che un simile piano, accettato in linea di massima dai ministri della Difesa di Francia, Germania e Belgio e la contrarietà della Spagna, danneggerebbe gli investimenti in 'capitale umano' (istruzione, formazione) o altri impieghi produttivi (sanità, ricerca e sviluppo) che contribuiscono alla crescita economica e all'occupazione5, soprattutto in un momento così difficile come quello attuale.
Le difficoltà della congiuntura economica e della finanza pubblica non sono l'unica chiave di lettura per interpretare le riluttanze europee di fronte alla 'chiamata alle armi' ricevuta da Washington. Le tensioni nei rapporti tra Stati Uniti e una parte degli alleati europei (Francia e Germania in primis), notevolmente aumentate dall'aggressione statunitense all'Iraq, sono originate da visioni diverse della situazione politica internazionale e da concezioni spesso opposte per quanto riguarda l'opportunità, le motivazioni, i tempi e le modalità del ricorso all'uso della forza militare nella lotta al terrorismo. L'elenco dei punti di frizione è assai lungo: si va dalle diverse modalità con le quali affrontare il processo di allargamento della NATO ad Est - la cui versione totale e rapida (Big Bang option) che prevede l'ingresso simultaneo di tutti gli stati candidati6 non convince Germania e Gran Bretagna - ai compiti, limiti d'impiego e ruolo nell'ambito delle relazioni atlantiche di una forza militare politicamente gestita, in completa autonomia, dall'Unione Europea. L'intenzione europea di inserire la propria politica estera e di sicurezza in un quadro di ampie relazioni con gli organismi internazionali (Nazioni Unite e OSCE), con la Russia e con stati extraeuropei importanti per gli assetti mondiali (Giappone, Cina e India), evitando di appiattirsi sul rapporto esclusivo con gli Usa e la NATO, suscita altre critiche da parte dei vertici statunitensi. L'intesa tra NATO ed UE sull'impiego da parte europea delle strutture militari dell'Alleanza, perfezionata nel marzo del 2003 dopo lunghi e travagliati negoziati avviati nel luglio 2000, ha lasciato molti aspetti da chiarire nei rapporti tra l'Alleanza atlantica e l'Unione Europea quale, ad esempio, la possibile concorrenza tra la Forza di Reazione Rapida dell'UE e l'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC), la forza di reazione rapida della NATO composta da 250.000 uomini pronti ad intervenire in almeno tre conflitti per un tempo di due anni in ogni parte del mondo, proposta nel febbraio 2002 dai vertici dell'Alleanza7.
Europa disarmata?
Le 'missioni di Petersberg', richiamate dal Trattato di Nizza sottoscritto dai paesi membri dell'UE nel febbraio del 2001, stabiliscono i compiti della costituenda Forza di Reazione Rapida (FRR) europea, la cui formazione entro il 2003 è stata decisa dal vertice europeo di Helsinki del dicembre 1999. La struttura militare dovrà affrontare operazioni umanitarie e di soccorso, peacekeeping8, gestione militare delle crisi, incluso il peacemaking e il peace enforcement9. Una serie di impieghi operativi che nulla hanno a che vedere con la difesa collettiva dei paesi dell'Unione, ma al tempo stesso, a meno di notevoli forzature politiche, non hanno molti punti in comune con la strategia della 'guerra preventiva' adottata a Washington nel 2002. La FRR, stando a quella che è l'attuale cornice dei trattati europei, non può essere impiegata in azioni militari unilaterali di alcun genere, tantomeno sotto il controllo politico degli Usa. Anche in questo caso, le riserve statunitensi sono precedenti al settembre del 2001, e si possono sintetizzare nel timore di una suddivisione del lavoro all'interno della NATO, che vedrebbe gli europei impegnati nelle missioni a 'bassa intensità', mentre gli Usa e il resto della NATO dovrebbero accollarsi il peso del 'lavoro sporco' (dirty work)10. Dopo l'11 settembre 2001 sono aumentate le pressioni per rivedere la natura delle 'missioni di Petersberg', inserendo un riferimento preciso alla risposta militare al terrorismo (molto gradito a Washington), ma da parte tedesca, francese e di altri paesi sono state avanzate molte perplessità al riguardo.
Le ragioni di coloro che reclamano un pronto allineamento alla strategia statunitense, magari in nome di una 'competizione' militare con gli Usa i cui tratti restano oscuri e assai preoccupanti, sono discutibili se vengono confrontate con la realtà maturata in Europa proprio sul versante delle spese per la difesa e dell'approntamento della FRR. Con l'attuale livello di stanziamenti sono stati conseguiti più dei due terzi dei 144 obiettivi operativi fissati nel novembre 2000 per poter giungere allo schieramento, entro il 2003, dei 100.000 uomini, 400 aerei da combattimento e 100 navi che costituiscono il nerbo della FRR prevista dal dettato dei trattai europei. Nei prossimi dieci-quindici anni, secondo uno studio commissionato dal governo britannico, per promuovere le capacità militari dei paesi dell'Unione Europea di rispondere alle crisi internazionali, dovranno essere stanziati dai governi degli stati membri più di 25 miliardi di dollari in investimenti aggiuntivi. Già tenendo conto della dinamica di lungo periodo (1988-2002) le spese militari dei paesi dell'UE potrebbero raggiungere nel 2005 i 177,6 miliardi di dollari (cost. 2000), un livello prossimo a quello degli ultimi anni della Guerra Fredda. Se anche ci si limita all'analisi dell'andamento degli stanziamenti tra il 1998 ed il 2002 (cfr. Grafico 1), l'estrapolazione indica per il 2005 un ammontare di 154,8 miliardi di dollari (+ 1,5 miliardi rispetto al 2002). Con gli stanziamenti aggiuntivi ipotizzati dallo studio britannico l'onere per i bilanci pubblici potrebbe addirittura crescere ulteriormente. Non siamo dunque al cospetto di un crollo verticale delle spese per la difesa, anzi si manifesta già con chiarezza una tendenza al loro aumento che rende insostenibile l'immagine di un'Europa 'disarmata' rispetto ai compiti stabiliti in sede istituzionale. Se poi la competizione con gli Usa è da intendersi come quella per la conquista di nuovi mercati per le esportazioni di armamenti, va notato che tra il 1998 ed il 2002, secondo i dati resi noti dal SIPRI relativi al commercio di grandi sistemi d'arma, i sei paesi europei firmatari dell'Accordo quadro di Farnborough per la ristrutturazione dell'industria europea della difesa (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svezia) hanno fatto fronte alla contrazione del mercato mondiale (da 23,2 miliardi di dollari nel 1998 - a prezzi costanti 1990 - a 16,5 nel 2002) in maniera migliore rispetto a quanto accaduto agli Usa. Infatti, nel periodo considerato in valore assoluto, le loro esportazioni sono diminuite di soli 2,4 miliardi di dollari, contro gli 8,9 degli Usa. La quota di mercato dei sei paesi europei si è stabilizzata su livelli di poco superiori al 20%, mentre quella degli Usa è crollata dal 55,2% del 1998 al 23,9% del 2002.
Grafico 1
Le incertezze e divisioni europee
Un altro fattore decisivo nel determinare un quadro pieno di incertezze e contraddizioni è rappresentato dalla mancata enunciazione di un chiaro indirizzo comune europeo in materia di politica estera e militare. Oggi il raggiungimento di questo obiettivo è ancora lontano, ostacolato dai ricatti incrociati e dai condizionamenti degli stati più forti dell'Unione - Francia e Gran Bretagna si sono fortemente opposte ai controlli della Commissione europea sulle fusioni che hanno visto protagoniste le loro industrie della difesa - e dei gruppi di pressione all'interno degli organismi politico-amministrativi europei legati agli interessi, sovente in rotta di collisione, delle grandi concentrazioni industriali del settore militare e dei rispettivi governi nazionali.
Diverse sono le visioni politiche che si confrontano nell'arena europea a proposito della politica estera, di sicurezza e difesa comune. I contrasti sono talmente evidenti da aver sollecitato, il 10 aprile 2002, una dichiarazione del Parlamento Europeo nella quale si deplorano le divisioni tra gli Stati membri sulle questioni cruciali di politica estera.
La Francia spinge per un forte ruolo autonomo dell'Europa e vede la FRR come primo passo verso la costituzione di un esercito per la 'potenza Europa', idea non completamente condivisa da altri paesi, quali Germania, Grecia, Lussemburgo e Spagna, favorevoli sì ad una politica d'integrazione europea, ma senza le connotazioni francesi che lasciano intendere la volontà di un confronto con gli Usa.
La Gran Bretagna preferisce mantenere saldi i propri legami transatlanitici e recitare un ruolo di rilievo per legare l'Europa agli Usa, piuttosto che pensare ed operare per la realizzazione di una politica europea realmente autonoma. Altri paesi, come Danimarca, Olanda e Portogallo, ritengono che il mantenimento della struttura difensiva della NATO sia sufficiente a garantire la sicurezza collettiva dei paesi europei. Per gli stati dell'Europa centrale e orientale che accederanno all'Unione Europea nel 2004, la NATO rappresenta la risposta più opportuna alle preoccupazioni associate al temuto risorgere di tentazioni egemoniche da parte delle potenze europee, timori non certo attenuati alla luce delle caratteristiche dell'attuale processo di costruzione della politica di difesa dell'UE, fortemente condizionato dagli interessi dei grandi paesi e delle loro industrie militari.
Gli stati scandinavi e del Nord Europa, dal canto loro, oltre a rimarcare l'importanza degli aspetti non militari nella gestione delle crisi (mantenimento e tutela dell'ordine pubblico11, rafforzamento dell'amministrazione giudiziaria e civile, protezione delle popolazioni), e vedere nella cooperazione fattiva con la Russia un fattore determinate per la sicurezza e lo sviluppo dell'Europa, sottolineano la necessità di un ampio coinvolgimento delle opinioni pubbliche europee nel processo di messa a punto della politica di difesa12.
I piccoli paesi e gli stati neutrali (Austria) o non allineati (Svezia e Finlandia) hanno inoltre sollevato obiezioni nei confronti delle azioni unilaterali dei grandi paesi in questa materia.
Esistono contrasti anche su come finanziare la politica di difesa. Due diverse scuole di pensiero si affrontano: c'è chi infatti chi preferisce la ristrutturazione e razionalizzazione degli stanziamenti, affidata alla volontà dei singoli stati, piuttosto che l'aumento delle spese militari. Il dibattito è aperto anche a proposito della titolarità dello sforzo finanziario richiesto: Francia, Germania e Gran Bretagna, contrariamente a quanto sostenuto da altri paesi, premono affinché si giunga ad un bilancio gestito a livello intergovernativo. Una questione politica di fondo è quella del ruolo del Parlamento europeo nel processo di costruzione della politica di sicurezza. L'assemblea di Strasburgo si è espressa nell'aprile del 2002 a favore dell'inserimento nel trattato dell'UE (sotto forma di protocollo, per gli stati che lo desiderano) di una clausola di difesa collettiva analoga a quella della NATO, per facilitare la mobilitazione degli strumenti civili e militari nella lotta al terrorismo. Secondo il Parlamento, i costi comuni delle operazioni militari nell'ambito della PESD, dovrebbero essere a carico del bilancio comunitario. Tuttavia, l'organismo parlamentare ha insistito affinché il Consiglio dei ministri dell'UE lo tenga pienamente informato sulle scelte effettuate in materia di PESD, ponendo implicitamente una questione di controllo sugli eventuali incrementi degli stanziamenti comunitari per la difesa. Questi ultimi sarebbero gestiti soprattutto dal Consiglio, sulle cui decisioni l'assemblea parlamentare ha minor capacità di controllo rispetto a quella che può esercitare sugli atti della Commissione.
L'incertezza e una certa dose d'ambiguità dominano sul versante degli indirizzi politici, tanto che l'UE si trova oggi ad aver sviluppato un complesso apparato burocratico ed un quadro di riferimento assai completo per l'industria degli armamenti senza tuttavia avere una linea politica condivisa in materia di difesa. Nei documenti ufficiali dell'UE non si trova traccia di enunciazioni preliminari che definiscano ex ante le caratteristiche ed i limiti del concetto di sicurezza; ad esempio, non esiste una chiara affermazione di rifiuto della guerra come mezzo da impiegarsi nella risoluzione delle controversie internazionali simile a quella enunciata nell'art. 11 della Costituzione italiana, rifiuto che non appare enunciato neppure nel progetto di carta fondamentale dell'Unione recentemente presentata.
La 'capacità di proiettare la presenza militare dell'UE' ben oltre i confini dell'Unione per opporsi alle minacce portate agli interessi europei, già richiamata con chiarezza nel documento conclusivo del vertice di Helsinki, non è stata né abbandonata, né tanto meno dettagliatamente articolata e spiegata nei documenti relativi alla PESD. Non vengono esplicitati i limiti della eventuale 'proiezione di potenza' conseguente alla gestione militare delle crisi su richiesta dell'OSCE e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite13, che del resto viene abbinata - talvolta in maniera assai contraddittoria - alla necessità di mettere a punto una capacità di intervento di tipo non militare in situazioni conflittuali. L'avvio di una collaborazione nel settore della produzione degli armamenti è l'unica proposta operativa concreta che emerge con chiarezza in questa fase.
L'attuazione fattiva della PESD resta ancora oggi affidata, in mancanza di una impostazione sovranazionale condivisa da tutti i paesi membri dell'UE, al complesso lavoro di 'cucitura' negoziale tra le diverse visioni dei problemi generate dagli interessi dei singoli stati membri. Le azioni comuni e le posizioni comuni che scaturiscono dalla mediazione finiscono per divenire gli strumenti politici della PESD.
La pesd dominata dagli interessi delle industrie delle armi
Si è dunque alla presenza di una impostazione assai discutibile e pericolosa, incapace di offrire le opportune garanzie di controllo democratico su un campo d'azione politica estremamente importante e delicato: in mancanza di un accordo politico chiaro sui principi fondamentali, sulla definizione puntulae di 'minaccia' alla sicurezza dei paesi dell'Unione (da chi o da che cosa sarebbe rappresentata, come la si dovrebbe affrontare), sui mezzi più idonei per assicurare una difesa efficiente (non sono state prese seriamente in considerazione opzioni alternative quali la difesa popolare non violenta o la 'difesa difensiva'), le scelte di carattere organizzativo ed operativo si sono trasformate nella PESD stessa e sono state affidate ai 'tecnici' del settore (stati maggiori, 'esperti' militari). Tale impostazione ha procurato grandi benefici all'industria militare, la cui visione del processo di consolidamento, concentrazione oligopolista, deregulation e privatizzazione del settore è stata fatta propria dai massimi leader politici europei. Questo è accaduto con buona pace dei principi di good governance, mettendo in crisi a volte lo stesso processo di costruzione di un mercato unico europeo della difesa, fortemente appoggiato dalla Commissione14, e limitando la diffusione di sistemi standard di trasparenza e controllo democratico nel settore della difesa, per non parlare dell'assenza pressoché totale dell'auspicato coinvolgimento dei parlamenti nazionali15 e dei cittadini europei nel delicato e fondamentale processo di costruzione della politica di difesa comune.