Petrolio e guerra

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di Milan Rai

È la progettata guerra contro l'Iraq mirata a rinforzare il dominio statunitense sulle risorse energetiche del Medio Oriente? Questa spiegazione ha una tale forza che il Daily Telegraph ha presentato una confutazione da parte di David Frum, il quale fino a qualche tempo fa si occupava di scrivere discorsi per il Presidente Bush. Frum, adesso membro permanente dell'American Enterprise Institute, argomentava verso la fine di ottobre che "gli americani preoccupati riguardi al petrolio tendono ad opporsi alle azioni contro Saddam, perché si preoccupano degli effetti che una guerra all'Iraq potrebbero avere sull'Arabia Saudita". L'ex redattore del Wall Street Journal continuava: "Ascoltate i pubblici ufficiali in pensione e i rispettati funzionari pubblici che hanno criticato la politica irachena del Presidente Bush - i Brent Scowcrofts e i James Bakers, gli Anthony Zinnis e i Laurence Eagleburgers - e sentirete ripetutamente la parola ‘stabilità'. ‘Stabilità' vuol dire petrolio".

Frum respinge l'argomento che la guerra all'Iraq sarebbe per "l'accesso al petrolio": "l'America può tuttora comprare liberamente tutto il petrolio che vuole. Non c'è stata nessuna minaccia credibile all'accesso verso le forniture di petrolio dall'embargo del 1973-74 e non c'è nessuna minaccia credibile oggi. Saddam vuole vendere più petrolio, non meno."

La guerra non sarebbe per "un petrolio più a buon mercato": "il barile di petrolio a 12-15 dollari significherebbe la chiusura di una larga parte della produzione domestica statunitense e spingerebbe la dipendenza del paese dalle importazioni di petrolio dal 50 percento fino ai due terzi o ai limiti dei tre quarti."

Fin qui Frum è convincente. Tuttavia, egli comincia a traballare nella parte conclusiva della sua argomentazione, quando sostiene che la guerra non sarebbe per "i contratti petroliferi". Lo scrittore di discorsi si chiede retoricamente "perché dovrebbe un governo - e specialmente uno così cinico come il signor [Alan] Simpson [MP] crede sia quello statunitense - combattere una guerra il cui costo molti stimano sia di 100 mrd $ per guadagnare dei contratti del valori di 40 mrd $. 40 mrd $ è la stima secondo Frum del valore dei contratti petroliferi che attualmente posseggono le compagnie petrolifere russe. 40 mrd $ è "soltanto poco più della metà del prodotto lordo dell'Arkansas", rileva Frum. Alan Simpson MP "realmente crede che qualsiasi presidente, non importa quanto inebriato, rischierebbe le vite dei soldati americani - e il proprio futuro politico - per questo?"

Ci sono qui due problemi: il valore del petrolio iracheno per le corporazioni statunitensi, e la questione dell'analisi imperiale costo/benefici. Cominciando dalla seconda questione, durante la storia le potenze imperiali hanno speso più nelle guerre di conquista e assoggettamento di quanto potessero guadagnare dalle colonie acquisite o soggiogate. La guerra statunitense in Indocina è uno stupefacente esempio di quanto i costi economici possano essere sproporzionati rispetto ai benefici materiali previsti. Il costo dell'impero è sostenuto dall'intera società, mentre a godere dei benefici dell'impero sono i pochi che contano. Quindi, in generale, per coloro che fanno politica - coloro che condividono interessi e punti di vista con chi detiene il potere a livello nazionale - è del tutto razionale usare le risorse della società per assicurare gli interessi di ricchi e potenti, anche se le spese eccedono i guadagni previsti. I costi sono socializzati, i benefici privatizzati. Questa è la realtà del nostro "libero mercato".

Ritornando alla questione dei benefici materiali, c'è una significativa omissione dall'articolo di Frum: le riserve petrolifere irachene. È dimostrato che l'Iraq possiede le seconde più grandi riserve petrolifere al mondo dopo l'Arabia Saudita. Le riserve mondiali di petrolio dimostrate sono circa 1.000 miliardi di barili. Le riserve totali dimostrate dell'Iraq sono 112 miliardi di barili, circa un decimo di tutto l'approvigionamento conosciuto di petrolio. Come osservava l'Economist qualche giorno prima dell'articolo di Frum, "la grande posta in gioco è il controllo delle riserve petrolifere". Mentre le sanzioni statunitensi vietano agli stranieri di investire nei campi petroliferi, "il che non ha fermato le imprese dalla corsa a firmare i contratti nella speranza di poter sfruttare i campi quando le sanzioni saranno rimosse". Compagnie petrolifere provenienti dalla Francia, dalla Cina, dall'India, e perfino la Royal Dutch/Shell hanno firmato degli accordi con Baghdad. "Lukoil, un gigante russo, ha un enorme campo che contiene oltre 11 miliardi di barili di petrolio; l'impresa progetta di investire 4 miliardi dollari durante il periodo di vita del campo per svilupparlo".

I contratti sono generosi: gli analisti della Deutsche Bank stimano che sono plausibili tassi di guadagno "dell'ordine del 20%".

Il petrolio del Mare del Nord costa dai 3 ai 4 $ al barile per produrlo. Secondo John Teeling, "capo di una delle poche compagnie occidentali che ammettono di lavorare in Iraq", il petrolio iracheno potrebbe costare appena 97 cents a barile per produrlo: "90 cents per un barile di petrolio che vendi a 30 $, questi sono i tipi di affari che ognuno vorrebbe fare. Un 97% di margine di profitto ... ci si può vivere", ha detto Teeling.

Osserva l'Economist: "Tutte queste devono essere cattive notizie per quelli esclusi dalla festa: gli americani". Alcune personalità dell'industria petrolifera sostengono che un nuovo regime strapperebbe i contratti esistenti, mentre il capo del Congresso Nazionale Iracheno, che raccoglie vari gruppi di opposizione, ha apertamente dichiarato che "le compagnie americane avranno una grossa quantità del petrolio iracheno", nel caso di un cambiamento di regime. Come rileva l'Economist, "è difficile immaginare che i giganti americani non trovino il modo di entrare in gioco nell'Iraq - o il ‘Klondike sullo Shatt al Arab' come lo chiama qualcuno - post-Saddam".

L'Iraq è sempre stato un fattore chiave nel mercato petrolifero mediorientale, e fu la fonte originaria del petrolio mediorientale. Infatti, quando la Standard Oil della California si assicurò la prima concessione occidentale di petrolio nell'Arabia Saudita nel 1932, un consorzio molto più grande e potente era sulla scena a tentare di bloccare l'accordo: l'Iraq Petroleum Company (IPC). L'IPC, dominata dagli inglesi, non credeva che il petrolio potesse essere rinvenuto nell'Arabia Saudita (opinione generale di quel periodo), e avevano già tanto petrolio in Iraq da non sapere che farsene, così consentirono agli Usa di mettere mano nella penisola arabica. L'IPC, composta da compagnie di punta come BP, Shell, Total of France e Exxon, in pratica in pratica occultò nuove scoperte di petrolio in Iraq e mantenne bassa con vari mezzi la produzione al fine di mantenere alto il prezzo del petrolio. Queste pratiche restrittive, cominciate negli anni '30, sono continuate negli anni '60, come ha stabilito l'US Senate Subcommittee on Multinational Corporations nel 1974. Un documento informativo interno dell'IPC rende palese che la compagnia ha scoperto vaste riserve di petrolio, ma le ha "rinchiuse per bene e non le ha classificato affatto in quanto la disponibilità di queste informazioni avrebbe reso la posizione contrattuale con l'Iraq di queste compagnie più problematica".

In seguito ad una modesta legge per la nazionalizzazione nel 1961, che rimuoveva i diritti dell'IPC in quelle aree in cui in quel periodo non stava producendo petrolio, un ufficiale del Dipartimento di Stato statunitense concludeva che "un legittimo caso sostanziale può essere prodotto (particolarmente in arbitrato) in merito al fatto che l'IPC ha seguito la politica del ‘cane nella mangiatoia' in Iraq, escludendo o soffocando tutti i competitori, gestendo allo stesso tempo la produzione in accordo con gli interessi mondiali complessivi delle compagnie compartecipi e non solo in accordo con gli interessi dell'Iraq". Andreas Lowenfeld osserva che "questa naturalmente è stata una delle principali accuse del governo iracheno contro l'IPC".

Il conflitto tra corporazioni e governo giunse ad un punto critico nel 1972, quando l'Iraq nazionalizzò le proprietà dell'IPC. Dopo una dura battaglia, alla fine l'IPC firmò, il 28 febbraio 1973, l'accordo per la nazionalizzazione, ricevendo un risarcimento da Baghdad. Adesso, i membri sopravvissuti del cartello IPC, tre delle più grandi compagnie mondiali, BP, Shell ed ExxonMobil, hanno rivelato che potrebbero sfruttare la caduta di Saddam Hussein per una disputa riguardo ai loro vecchi possedimenti in Iraq, sostenendo che l'accordo per il risarcimento/nazionalizzazione del 1973 fu firmato sotto costrizione.

Il prof. Thomas Walde, in passato il principale consulente interregionale dell'ONU su petrolio e gas, ha detto delle compagnie petrolifere: "Se fossi stato il loro consulente, avrei trasformato ciò in una leva per la contrattazione con il nuovo governo. Potrebbe giocare un ruolo nella gara per ottenere nuovi titoli". Quindi vi sono grandi poste in gioco, sia in termini di contratti per la ricostruzione dell'industria petrolifera irachena, che per acquisire nuove concessioni nella fonte originaria del petrolio mediorientale, con fenomenali profitti all'orizzonte. Ci sono anche delle altre poste in gioco.

Nel 1958, il Ministro degli Esteri Selwyn Lloyd sintetizzava così gli interessi britannici nel Golfo:

(a) assicurarsi il libero accesso dell'Inghilterra e dei paesi occidentali al petrolio prodotto negli stati che confinano con il Golfo

(b) assicurarsi la disponibilità continua di questo petrolio in termini favorevoli; e provvedere un'appropriata sistemazione per gli investimenti

(c) impedire la diffusione del comunismo e dello pseudo-comunismo nell'area e oltre; e, come precondizione, difendere l'area contro il divampare del nazionalismo arabo sotto la cui copertura al presente il governo sovietico preferisce avanzare.

L'offerta materiale e il prezzo del petrolio erano preoccupazioni principali, vero, ma lo erano anche gli investimenti della quota di profitti del Kuwait nei mercati finanziari britannici. Alcuni documenti statunitensi desecretati notano che "l'Inghilterra sostiene che la sua stabilità finanziaria potrebbe essere seriamente minacciata se il petrolio del Kuwait e del Golfo Persico non fosse disponibile all'Inghilterra in termini ragionevoli, se l'Inghilterra fosse deprivata degli ampi investimenti fatti da quest'area nell'Inghilterra e se la sterlina fosse deprivata del supporto fornito dal petrolio del Golfo Persico".

Questa non è una guerra per il petrolio. È una guerra per controllare i profitti provenienti dal petrolio.

Fonte: Digilander Libero

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