Perseguire i profitti o il potere?

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Le imprese cercano di massimizzare i profitti? O cercano di massimizzare il potere? Le due cose possono essere complementari – la ricchezza genera potere, il potere genera ricchezza – ma nono sono la stessa cosa. Una differenza importante è che i profitti possono derivare da una “torta” economica che si espande, mentre la dimensione della torta del potere è fissa. Il potere è un gioco a somma zero: più per me significa meno per te. E per le imprese il perseguimento del potere a volte supera il perseguimento dei profitti.

Si prenda, ad esempio, l’istruzione pubblica. Maggiori investimenti nell’istruzione dall’asilo all’università potrebbero accrescere la torta complessiva del benessere. Ma ridurrebbero il vantaggio educativo degli oligarchi delle imprese e dei loro figli istruiti presso scuole private, e ridurrebbero il potere che ne deriva. Anche se le imprese traggono beneficio dalla torta più grande prodotta da una manodopera meglio istruita, esiste una tensione tra ciò che è bene per gli affari e ciò che è bene per l’élite degli affari.

Similmente, l’èlite affaristica oggi appoggia le politiche di austerità economica invece di quelle della piena occupazione, che aumenterebbero la crescita e i profitti. Questo può avere qualcosa a che fare con il fatto che l’austerità accresce la disuguaglianza, mentre la piena occupazione la riduce (dando potere ai lavoratori). Se sbucciamo i vari strati della cipolla, al centro troviamo di nuovo che quelli al vertice della piramide imprenditoriale mettono il potere davanti ai profitti.

Come ulteriore esempio si consideri la politica della regolamentazione governativa. Le imprese scaricano regolarmente sui consumatori tutti i costi che sostengono in conseguenza dei regolamenti. Nell’industria automobilistica, ad esempio, le norme che impongono le cinture di sicurezza, le marmitte catalitiche e una miglior efficienza nei consumi hanno fatto aumentare di qualche centinaio di dollari i prezzi delle auto. Non hanno tagliato i margini di profitti dei produttori di auto. Se i costi della regolamentazione alla fine sono sopportati dal consumatore, perché incontrano una resistenza così rigida da parte delle imprese? La risposta può aver meno a che fare con i profitti che con il potere. I capitani d’industria sono suscettibili a proposito delle loro “prerogative gestionali”. Semplicemente non amano che altri dicano loro cosa devono fare.

In un famoso documento del 1971 per la Camera di Commercio statunitense il futuro giudice della Corte Suprema Lewis Powell scrisse: “E’ da molto passato il tempo in cui i compiti del dirigente esecutivo di una grande impresa sono assolti mantenendo una soddisfacente crescita dei profitti.” Per contrastare quello che descriveva come un attacco contro il sistema statunitense della libera impresa da parte di sindacati, degli studenti e dei difensori dei consumatori, Powell sollecitava gli amministratori delegati ad agire “facendo tesoro della lezione che è necessario il potere politico; che il potere deve essere coltivato assiduamente e che, quando necessario, deve essere usato aggressivamente e con determinazione”. Stava predicando a un uditorio recettivo.

L’idea che le aziende massimizzino ossessivamente i profitti è un assioma di fede dell’economia neoclassica per principianti, ma teorie alternative hanno una lunga storia nella professione più vasta. Thorstein Veble, John Maynard Keynes e Fred Hirsch considerarono tutti la posizione individuale rispetto a quella altrui come una motivazione chiave del comportamento economico. Oggi una versione ad effetto di questa idea si incontra negli adesivi sulle auto: “Chi muore con i giocattoli migliori vince”.

Nel suo discorso presidenziale del 1972 all’Associazione Economica Statunitense, intitolato “Il potere e l’economista utile”, John Kenneth Galbraith contrappose il ruolo del potere nell’economia del mondo reale al fatto che era ignorato dall’economia ortodossa: “Nel trascurare il potere – nel rendere l’economia una materia apolitica – la teoria neoclassica … distrugge il suo rapporto con il mondo reale.”

Nello schieramento libero-mercatista dello spettro ideologico, il perseguimento del potere è presentato come una patologia distintiva dello stato. L’economista della “Scuola di Chicago” William Niskanen ha teorizzato che i burocrati del settore pubblico cercano di massimizzare la dimensione dei loro bilanci, facendone un lasciapassare per “salario, prerogative della carica, reputazione pubblica, potere, clientela, facilità di gestire la carica e facilità di operare cambiamenti”. Ha chiamato questa “l’economia peculiare della burocrazia”.

Ma il perseguimento del potere non è monopolio delle burocrazie governative. E’ la normalità anche nelle burocrazie imprenditoriali. Nel suo discorso presidenziale, Galbraith operò il collegamento: “Tra burocrazie pubbliche e private – tra la General Motors e il Dipartimento dei Trasporti, tra la General Dynamics e il Pentagono – c’è un rapporto profondamente simbiotico.”

Riconoscere il perseguimento del potere nel mondo reale non solo contribuisce a comprendere comportamenti che altrimenti sembrerebbero bizzarri. Reindirizza anche la nostra attenzione dalla dicotomia tra mercato e stato a una dicotomia più fondamentale: la divisione tra oligarchia e democrazia.

James K. Boyce da Znetitaly.altervista.org

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