www.unimondo.org/Notizie/Per-fare-un-uovo-ci-vogliono-secoli!-150215
Per fare un uovo ci vogliono… secoli!
Notizie
Stampa
Per fare un uovo ci vogliono secoli, sì. E non di certo perché le tartarughe, proverbialmente note per la loro lentezza, stiano confermando una volta di più i tempi lunghi di cui hanno bisogno. Questa volta anche noi abbiamo un ruolo nell’intervallo trascorso tra una covata e l’altra, non solo per le nostre disattenzioni ambientali (inquinamento dei mari, smaltimento selvaggio dei rifiuti) o per il disinteresse che mostriamo, consumatori voraci e sfrenati, per le conseguenze delle nostre scelte (vedasi prodotti della pesca a strascico e di altre tecniche che prevedono un eccessivo sfruttamento delle risorse), ma anche per qualche responsabilità… storica.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, precisamente a dicembre dello scorso anno, e veniamo ai fatti: dopo più di un secolo durante il quale sulle Isole Pinzón dell’arcipelago delle Galapagos non era stato avvistato nessun piccolo di tartaruga… qualche esserino ha smosso le dune con piccoli movimenti verso il mare. Nascite recenti che, se da un lato confortano gli amanti del pianeta che su queste nuove vite investono parte delle speranze di preservare la biodiversità, dall’altro riaggiustano i riflettori sulla problematica dell’estinzione di alcune specie, causata per la maggior parte da attività umane. Un evento in ogni caso talmente eccezionale da indurre uno dei ricercatori ad esprimere tutto il suo stupore per questa opportunità di “rimediare agli sbagli che abbiamo compiuto”.
Quella delle isole Galapagos è forse la più conosciuta tra le catastrofi di portata epocale che ingrossano le fila delle tragedie degli ecosistemi, di cui anche Unimondo si è fatto spesso portavoce. Questo triste primato affonda le radici nella metà del XVIII secolo quando i primi marinai approdarono sulle coste di Pinzón. I ratti che si trovavano a bordo dei vascelli si sono senza troppi sforzi inseriti in quel delicato ecosistema, mettendone in serio pericolo il fragile equilibrio. Un ricco banchetto di uova e piccoli che fino ad allora se l’erano cavata facilmente, dovendosela vedere solo con pochissimi predatori. L’arrivo dei ratti fu a tal punto devastante che nelle decadi successive nessun piccolo di tartaruga sopravvisse al massacro, avviando la specie sulla triste strada dell’estinzione.
Se però l’uomo è stato causa di questo loro declino, è stato in parte anche artefice del loro salvataggio. A metà degli anni ’60, a fronte di un numero bassissimo di tartarughe rimaste in vita (un centinaio), gli ambientalisti hanno concordato uno sforzo congiunto per la sopravvivenza della specie: le poche uova non ancora schiuse che i ricercatori sono riusciti a trovare sono state raccolte e riposte per l’incubazione su un’altra isola, dove hanno potuto schiudersi. I piccoli nati hanno quindi raggiunto l’età di cinque anni, quando cioè, grandi abbastanza da non poter essere mangiati dai ratti, sono stati ricondotti sull’isola di Pinzón. Una soluzione tampone che non ha però risolto il problema, dato che le uova che rimanevano sull’isola continuavano ad essere predate. Il passo successivo, più aggressivo ma a quanto pare l’unico ad essersi fino ad ora dimostrato efficace, è stato messo in atto nel 2012 quando i biologi hanno utilizzato degli elicotteri per polverizzare sull’isola un veleno destinato ai ratti, mettendo così in pratica la prima di una serie di operazioni di disinfestazione che hanno permesso di dichiarare l’sola di Pinzón come “rat free”. Che la soluzione abbia avuto effetto lo dimostrano le recenti osservazioni, che hanno permesso di rilevare la schiusa di 10 nuove uova: non certo una cifra da capogiro, ma sufficiente per sollevare gli animi dei ricercatori che hanno sottolineato come questo episodio rappresenti la prima riproduzione spontanea andata a buon fine dopo più di un secolo e non avvenuta in condizione di cattività.
Il ricercatore James Gibbs, di SUNY-ESF (State University of New York’s College of Environmental Science and Forestry) riporta inoltre un ulteriore avvistamento di 300 esemplari sull’isola che riconduce il problema proprio alla possibilità di protezione. Sappiamo però che non si tratta solo di questo: sono sufficienti 6 minuti per dare un’occhiata a questo video in cui Linda Cayot, consulente scientifico per la tutela delle Galapagos, mette in chiaro più di un fattore di corresponsabilità nelle minacce a cui sono sottoposte le tartarughe e altre specie dell’arcipelago, e che vanno dalle baleniere (che hanno ucciso negli anni più di 200 mila tartarughe) alla mosca philornis, uno dei principali parassiti che affliggono i fringuelli e una tra le specie che non appartenevano originariamente a questo ecosistema ma che sono state introdotte sulle isole in un secondo momento (per lo più involontariamente, anche attraverso i numerosi voli turistici che atterrano quotidianamente e che rappresentano il motore dell’economia di queste isole ma anche uno dei maggiori rischi ambientali). Molti fattori si incrociano dunque su queste traiettorie aeree e marittime, intrecciando una complessità che si risolve, come troppo spesso e con tristezza dobbiamo ammettere, in un unico imperativo: rimediare ai danni dell’uomo.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.