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Patrimoni dell’umanità… disumani
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Foto: Unsplash.com
UNESCO. Patrimoni dell’umanità. Cosa ci viene in mente? Siti archeologici, aree naturalistiche, monumenti. Cose belle da vedere, di cui godere, da preservare all’interno di quel diritto al futuro che spetta a ciascuno. Niente a che fare con diritti umani negati, soprusi, connivenze, intimidazioni e violazioni… giusto? No, affatto.
Survival International ha recentemente pubblicato un rapporto inquietante, che porta a galla una contraddizione tremenda, ancor più assurda perché occultata dietro parole che mai la farebbero sospettare. Dal 1983, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) invita ogni anno il mondo a celebrare in primavera (18 aprile) la Giornata Internazionale dei Monumenti e dei Siti, nota anche come Giornata del Patrimonio dell’Umanità. E fin qui tutto bene, perché aumentare la consapevolezza sulla conservazione del patrimonio mondiale è una buona idea e un ottimo intento.
Nei fatti però la realtà è per molti siti ben diversa: negli stessi luoghi da un lato protetti e tutelati si verificano apertamente abusi orribili, spesso “con la complicità dell’UNESCO e talvolta persino con il suo sostegno” si legge nel rapporto intitolato #DecolonizeUNESCO. La denuncia verte sul fatto che troppo frequentemente i cosiddetti siti “naturali” riconosciuti come Patrimonio Mondiale sono zone di guerra per i popoli indigeni, il cui rapporto reciprocamente vitale con questi luoghi viene negato e spesso represso. Si tratta di terre ancestrali per numerose comunità, che però vengono brutalmente osteggiate quando vogliono accedervi: abusi, stupri, pestaggi, a volte persino omicidi… nel nome della “conservazione”.
Ancora una volta torniamo lì, alle parole: almeno 1/3 dei siti (227) dichiarati Patrimonio Mondiale “Naturale” ai sensi della Convenzione UNESCO sul Patrimonio dell’Umanità del 1972, sono nell’immaginario – e nella realtà – descritti come “pura natura”. E questo evoca luoghi incontaminati, spettacolari, vergini e selvaggi e… vuoti. Ma non lo sono. Questi territori “si trovano in tutto o in parte all’interno dei territori tradizionali dei popoli indigeni e sono di grande importanza per i loro mezzi di sussistenza e il loro benessere spirituale, sociale e culturale”.
Sebbene numerosi studi dimostrino il contrario, i popoli indigeni non vengono quasi mai considerati come i migliori custodi di quei territori a cui la loro vita è fortemente legata e che amano come la propria Casa, valorizzando le risorse naturali e le competenze umane che lì crescono e si sviluppano. I popoli indigeni si trovano invece a pagare a caro prezzo il diritto di abitare i paesaggi più belli e importanti del nostro pianeta, e di tutelarli. E purtroppo la responsabilità storica dell’UNESCO non può esimersi dalle sue conseguenze: quelle di aver impostato negli anni un approccio di “conservazione fortezza”, che a partire dall’Africa postcoloniale ha sostenuto l’idea che la natura debba essere salvata grazie a esperti (provenienti da altrove anche molto lontani e spesso con concezioni coloniali e razziste), scienza (occidentale) e creazione di parchi nazionali recintati che escludono gli abitanti originari, concepiti come portatori di richieste ostacolanti a breve termine (cioè restare sulla propria terra) a scapito di pianificazioni di lungo periodo (spesso a vantaggio di turisti di passaggio).
Una visione che purtroppo ha coinvolto anche realtà di prestigio come la IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) nell’identificare molte aree protette senza il consenso delle popolazioni locali, venendo a definire un concetto di tutela per una “generica umanità” e preferendolo al rispetto di chi quelle terre le abita da anni e ha di fatto creato nel tempo proprio quelle condizioni per cui sono effettivamente un patrimonio unico. Una beffa, se si potesse limitarsi a una definizione così leggera, che rende per una volta la Terra più importante degli uomini, ma purtroppo nel modo sbagliato, calpestando diritti, tradizioni e culture mentre apparentemente ci si spende per difenderli.
Scienza, conservazione e bellezza sono indubbiamente valori, e ci auguriamo che siano valori trasversali, comuni all’umanità intera. Ma mai possono essere incompatibili con il rispetto dei diritti umani sotto l’egida subdola dell’idea che tutelare un luogo significhi sottrarlo ai suoi custodi.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.