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Parlar male, anche a sinistra
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Foto: Unsplash.com
A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, dice una nota citazione attribuita a Giulio Andreotti, che però ha quasi certamente radici perfino più clericali e antiche: Achille Ratti, primo sovrano della Città del Vaticano, quel Pio XI che, due giorni dopo la Marcia fascista su Roma, fece scrivere all’Osservatore Romano che il papa “si tiene al di sopra delle parti, ma rimane la guida spirituale che sempre presiede ai destini delle nazioni”. Qualcuno, nel 1922, avrà certo pensato alla non ingerenza, ma “al di sopra delle parti” comunicava e significava ben altro, forse, chissà, perfino al di là delle intenzioni. Non sappiamo, e poco ci interessa saperlo, se anche a parlar male si faccia peccato, quel che però non andrebbe taciuto è che non ci si “indovina” affatto. In modo particolare quando, ad esempio, si finisce per indebolire e logorare il certosino lavoro di de-costruzione che da decenni s’è fatto sul linguaggio in un sistema ideologico e semantico come quello razzista. Un sistema che poggia in misura rilevante su una vera e propria montagna di parole manipolate, strumentalizzate, distorte senza alcuna ingenuità. Annamaria Rivera, una delle studiose militanti che hanno dedicato diversi decenni a quella de-costruzione per fini tutt’altro che accademici, se ne duole da sempre. Qualcuno tra i suoi lettori più fedeli troverà perfino ripetitivo il suo accorato insistere sul tema, la verità è che i discorsi sul cibo e le società “multietniche” – laddove gli “etnici” son sempre gli altri e le altre -, mostrano ben altra dolente e pervasiva ripetitivà.
Per ciò che riguarda migrazioni, diritti dei/delle migranti, razzismo e antirazzismo, il discorso pubblico italiano, anche nelle sue varianti non-razziste, spesso sembra atteggiarsi come se ogni volta fosse la prima: gli antefatti e lo sviluppo di questo o quell’accadimento, di questo o quel problema, di questa o quella rivendicazione, di questo o quel concetto sono semplicemente rimossi.
Una tale smemoratezza, per così dire, non riguarda solo le retoriche pubbliche maggioritarie, ma talvolta influenza l’atteggiamento e il discorso delle minoranze attive, riflettendosi anche nel linguaggio e nel lessico, influenzati dalla vulgata mediatica e perfino dal gergo del senso comune.
Mentre li credevamo archiviati grazie a un lungo lavoro critico, tornano in auge formule e vocaboli legati a schemi interpretativi, anche spontanei, del tutto infondati. Non potendo riportarne l’intero catalogo, ci soffermiamo solo su alcuni.
Razza-razziale
Il razzismo è anzitutto un’ideologia, quindi una semantica: è costituito da parole, nozioni, concetti. Sicché l’analisi critica, la decostruzione e la denuncia del sistema-razzismo hanno obbligatoriamente un versante lessicale e semantico. Così se tu parli di discriminazione razziale, invece che razzista, puoi finire inconsapevolmente per legittimare la nozione e il paradigma di “razza”, suggerendo l’idea che a essere discriminate siano persone differenti per “razza”.
A incorrere in sbavature lessicali di tal genere possono essere anche locutori che si reputano antirazzisti/e, per di più colti/e; perfino istituzioni e associazioni deputate a contrastare il razzismo o addirittura a promuovere il rispetto di codici deontologici nel campo dell’informazione. Questo appare oggi tanto più paradossale se si pensa che pure in Italia, per iniziativa di un gruppo di antropologi-biologi, poi anche di antropologi culturali, è in corso una campagna per la cancellazione di “razza” dalla Costituzione.
Sebbene la nozione di “razza” sia stata espunta anche dal campo della biologia e della genetica della popolazioni, il suo utilizzo perdura anche in ambienti intellettuali e/o perfino “di sinistra” o continua a essere utilizzata secondo un uso banale e pericoloso che non può essere ignorato.
Etnia-etnico-etnicità
Come osserva l’antropologo Mondher Kilani, co-autore, insieme con René Gallissot e Annamaria Rivera, del saggio collettaneo L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave (Dedalo, Bari 2012), l’aggettivo “etnico” suona sinistramente in espressioni quali “pulizia etnica”, “guerra etnica”, “odio etnico”. Inoltre, sia il senso comune che una parte di media e d’intellettuali tendono a considerare i cosiddetti “gruppi etnici” come entità quasi-naturali, connotate da ancestralità e primordiali legami di sangue e di conseguenza ad associarli a una diversità insuperabile. Di conseguenza “etnia” è spesso usata come un eufemismo di “razza”.
Frequente, anche in ambienti antirazzisti, è l’abuso di locuzioni quali “società multietnica”, “quartiere multietnico”, “corteo multietnico”… Sebbene siano usate talvolta in senso intenzionalmente positivo, formule di tal genere rinviano pur sempre a “etnia”: una nozione assai controversa, poiché basata sull’idea che esistano gruppi umani fondati su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria.
In realtà, nei contesti discorsivi mainstream, “etnici” sono sempre gli altri e le altre, i gruppi considerati particolari e differenti dalla società maggioritaria, ritenuta normale, generale, universale. Non è raro che “etnia” sia adoperata, in riferimento alle minoranze, ai rom, alle popolazioni di origine immigrata, come sostituto eufemistico di “razza”. Tanto che perfino nella cronaca della migliore stampa italiana è possibile imbattersi in locuzioni assurde e paradossali quali individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese; mentre mai ci è capitato di leggere di etnia europea o di etnia nordamericana.
In ogni caso, che sia per pregiudizio o per intento discriminatorio, per incompetenza o sciatteria, quando si tratta di qualificare cittadine/i di origine immigrata o appartenenti a minoranze sembra non valere il criterio neutro, o almeno simmetrico, della nazionalità...