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Parigi. Un passo indietro per un balzo in avanti
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Parigi, 11 gennaio 2015. L'Europa s'è desta. S'è risvegliata dal torpore che è tipico dei paesi opulenti. I numeri: 3,7 milioni di persone in tutto il Paese, oltre 50 tra capi di Stato e di governo. Il corteo contro il terrorismo è stato la più grande manifestazione nella storia della Francia. Ma cosa abbiamo imparato? Dobbiamo essere più Europa se vogliamo rispondere sia alla violenza strutturale come povertà, fame, guerra, disoccupazione che alla violenza terroristica che accomuna disperati e svuotati sono un'unica bandiera nera.
Non è possibile infatti rispondere in Europa al terrorismo con 28 modalità statuali, 28 linguaggi diversi, senza saper l'uno cosa fa l'altro. Ma la risposta regionale europea è importante ma non sufficiente se non è collegata alla risposta mondiale. Perchè le vittime di Parigi, seppur simbolicamente rilevanti, sono di gran lunga inferiori come numero alle vittime di Maiduguri in Nigeria ove bambine imbottite di tritolo vengono fatte esplodere nei mercati rionali.
Il terrorismo conosce bene sia l'impotenza dello Stato nazione e la sua incapacità di mettersi in rete e sia la sua alta probabilità d'essere corrotto come accadde in Kenya e Tanzania nell'attentato alle ambasciate americane il 7 agosto 1998. Il terrorismo cerca, quindi, di deflagarlo imponendo uno Stato Islamico – che nulla ha a che vedere con l'Islam – a macchia di leopardo che non ha confini ma che già macina milioni di dollari al giorno, contrabbanda in petrolio e reperti archeologici, rapisce ed è oggetto di ingenti donazioni private. Secondo David Cohen – sottosegretario al terrorismo e all'intelligence finanziaria del dipartimento del tesoro statunitense siamo di fronte all' “organizzazione terroristica meglio finanziata con cui gli Stati Uniti abbiano mai avuto a che fare”. Insomma; un colosso.
Come sortirne? Prendendo atto che non siamo i protagonisti della scena ma delle semplici comparse. Solo “lavorando assieme”, come peraltro auspicato dall'VIII° Obiettivo del millennio, potremmo tornare a ricoprire un ruolo di attori. Già nel 1954 alcide De Gasperi auspicava un esercito europeo che avrebbe fatto risparmiare ingenti risorse agli Stati Nazione della nascente Europa. Un esercito non significava solo macchine ma uomini e mezzi. Intelligence. Il penoso scaricabarile degli utlimi giorni nella babele dei servizi segreti europei ci rileva quanto importante fosse stata quella vision.
Ma ancor prima (26 giugno del 1945) la Carta delle Nazioni Unite tentò di passare da una logica statocentrica ad una umanocentrica. Cito solo l'art. 43 del capitolo VII° della Carta delle Nazioni Unite: “al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i membri delle Nazioni Unite s'impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza (…) le forze armate, l'assistenza e le facilitazioni (…) necessarie per il mantenimento della pace e della sicrezza internazionale”. Ad oggi nulla di tutto ciò. Gli Stati Nazione più facoltosi hanno sempre resistito nel riconoscere un'autorità sovranazionale e non hanno mai rinunciato alla quota parte del proprio potere. Anxche a rischio di diventare impotenti. Per dirla in immagini figurative: “un soldato americano ha mai messo un elmetto blu in testa”. Insomma, esiste una vera e propria guerra dentro le Istituzioni internazionali tra gli stessi Stati che hanno sfilato a Parigi esprimendo cordoglio alle vittime: dalla grandeur francese all'Inghilterra post commonwealth tutti descrivono ancora un mondo ottocentesco eurocentrico ove i ministri affari esteri impongono o, meglio,“vorrebbero imporre” linee politiche sui tavoli di trattativa. Ai tempi di Cindia (2,5 miliardi di persone) o del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che in termini di PIL supera di gran lunga il G8 noi possiamo continuare a giocare a “mamma casetta” ma i terroristi, nel frattempo, ci potrebbero violentare la mamma ed impadronirsi della casetta se non impariamo a cooperare come già, perlatro, loro fanno.
Prima ci rendiamo conto che i media economici mondiali, compreso The Economist” sono più interessati ai comunicati stampa del CPC di Pechino che ai dispacci “triti e ritriti” dei G8 e prima potremmo ridimensionare la nostra mappa mentale ricollocandoci nel posto che ci spetta e non nel posto che vorremmo o che rivendichiamo. Una volta “preso atto” del “chi siamo” dovremmo invitare a sedere a tavola paesi come la Nigeria o il Sudafrica per non parlare delle tigri asiatiche e latino americane. Che non pensiamo che il consiglio di sicurezza dell'Onu (Inghilterra, Usa, Cina, Francia, Russia) debba escludere “ad vitam” i paesi mussulmani che sono la prima religione al mondo. O le organizzazioni regionali come l'Unione Africana o la Lega Araba. Ma chi ci crediamo di essere?
Ripetiamo:
a) “prendere atto”;
b) “fare un passo indietro come nazione per fare un passo avanti come regione (Europa);
c) “invitare al tavolo politico i nuovi Stati....prima che siano loro a lasciarci fuori dai tavoli economici”.
Insomma, abbiamo bisogno di ottima politica anche per emarginare gli sguaiati da Le Pen a Salvini che non onorano affatto i decenni di buona politica che hanno permesso all'Europa di godere della pace più lunga.
Il Segretario di Stato Pietro Parolin, il 29 settembre scorso, ha fatto un discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite di New York che andava proprio in questa direzione. Un programma che s'intreccia con i nuovi obiettivi di sviluppo del Millennio. Egli terminava con il motto: “tutto si perde con la guerra e nulla si perde con la pace!”