Padre Lillo

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Foto: M. Canapini

Nel dicembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso un breve periodo a Lampedusa, focalizzando l’attenzione su tanti elementi rivelatori: lapidi, dissensi, barconi confiscati, parole accoglienti, denunce. 

“Come si può convivere con un piede sul confine?” chiedo sovrappensiero a Giacomo. “Si può convivere con tutto. Non è che da vent’anni i migranti sbarcano ogni giorno. Cerca di non idealizzare né enfatizzare la realtà di Lampedusa. Qui c’è il mare che è un elemento forte. I naufragi, il porto, le telecamere, sono tutti effetti scenici che rendono la vicenda quasi biblica all’occhio complice dei media. Ma la disperazione che passa a Lampedusa la vediamo poi per strada, arriva dentro tutte le città d’Italia. Certo, ammetto che abbiamo vissuto momenti forti che altre piccole comunità magari non hanno vissuto, ma siamo gente normale come tutti. Non siamo angeli, né speciali, né troppo accoglienti o dal cuore grande come ci descrivono. Il dolore va condiviso. Come collettivo immaginiamo che l’80% degli sbarchi sia in realtà controllato, in base al clima politico che c’è accadono esatte sciagure o salvataggi. La regolarizzazione dei viaggi è l’unico punto fondamentale, altrimenti continuiamo a ripetere le stesse cose da trent’anni. Consiglio di provare a liberare le catene della mente ancor prima delle persone. E poi, la Sicilia intera sta vivendo lo stesso processo dell’Africa in quanto a emigrazione. Dunque, non enfatizzare, non spettacolizzare la semplicità delle cose, ma tessere comunità, ascoltare i bambini, continuare a seminare. Gli arbusti di oggi saranno foreste”. 

Scruto l’hotspot dell’isola, adagiato in una conca di pietra in Contrada Imbriacola. Il centro è l’unico d’Italia a non avere il valico entrata-uscita regolato (per mezzo di braccialetti, firme o altri dispositivi). I cancelli sono sempre sbarrati. È contro la legge, ma poco importa. Novantasei posti letto legali all’interno, per un numero in media doppio o triplo di migranti presenti, che evadono da un buco nella rete mai rattoppato. Nel sagrato della chiesa di San Gerlando invece, Don Carmelo sorride bonario e concede il WIFI alla babele di lingue astruse: tutti sopravvissuti dell’ultimo naufragio. Compreso Youl, cinque anni, libico, che a distanza di giorni continua a chiamare la mamma morta affogata. Nella moltitudine di sguardi si aggira Lillo, impegnato a stringere mani. “Se sei sensibile alla sorte umana è un peso per l’anima vivere a Lampedusa. La cosa peggiore è sapere che le tragedie capitano sempre sotto costa, quando sei a un passo dalla salvezza. Si agitano, non immaginano che un’onda può cambiare tutto in una frazione di secondo. Alcuni, una volta scesi, non riescono neppure a camminare: l’acqua salata ristringe i pantaloni e blocca la circolazione alle gambe” dice l’uomo, viso limpido da bambino. “La prima imbarcazione clandestina arrivò negli anni Ottanta, non c’era nemmeno l’hotspot ancora. Il 2011 ha segnato senza dubbio, in maniera estremamente positiva, il mio percorso di vita. Come famiglia abbiamo una profonda dedizione nell’aiutare il prossimo; la nostra porta di casa è sempre stata aperta, un porto di mare in cui amici, conoscenti, migranti di passaggio hanno potuto rifocillarsi e dormire. L’isola, in quei mesi, è stata sopraffatta dai ragazzi della Primavera Araba. Arrivavano come fosse pioggia, un barchino dietro l’altro. Non facevamo in tempo ad aiutare qualcuno che ne arrivavano di nuovi. La stampa parlava di 5.000 maghrebini, ma in realtà erano 10.000, forse di più, che vivevano per strada. Per due mesi siamo stati completamente abbandonati a noi stessi. Ci siamo tirati su le maniche convinti che finché fossimo riusciti ad aiutarli l’avremmo fatto. Io di mattina lavoravo, la notte la trascorrevo in giro a donare tè caldo e coperte. Abbiamo cominciato ad accoglierli in casa, cercando di farli sentire a proprio agio, protetti e tranquilli. Abbiamo messo a disposizione docce, alimenti e PC, in modo che comunicassero coi propri genitori o parenti oltremare. Siamo genitori temporanei, psicologi, rifugio per tutti loro, ma prima o poi vengono smistati e ogni volta ci perdiamo i pezzi. Come le tre ragazzine di Fez sopravvissute all’ultimo incidente. Dal Marocco si erano trasferite (con la famiglia) per lavoro in Libia e da lì sono state costrette a scappare dopo il recente bombardamento di Haftar su Tripoli. I genitori sono annegati qua davanti. Che fine faranno le ragazzine? Le aspetta un Centro di accoglienza per minori non accompagnati, o finiranno nelle mani di mafiosi e trafficanti? Sappiamo solo che tenteranno di dirigersi in nord Italia, dove hanno qualche aggancio. Di Lampedusa appare sempre un’immagine vergognosa, non si fa altro che mostrare l’arrivo dei barconi anche se ne arrivano sempre meno. In pochi, pochissimi raccontano la tendenza dei locali a unire turismo e accoglienza, fenomeno che accade da trent’anni. La burocrazia soffoca l’incontro, lo scambio umano. Riassumono tutto in loro e noi. Noi però dormiamo nei letti, loro, quando arrivano, dormono sui cartoni vicino al fruttivendolo. Ma io dico, ho un appartamento vuoto qui a Lampedusa. Perché se vado e consegno i miei dati alla prefettura non posso ospitare una famiglia? Perché la legge assordante mi nega il diritto a fare del bene? Quando è arrivato, Seydou (nostro figlio adottivo) era minorenne e lo Stato ci passava un sussidio di trecento euro mensili. Grazie a Dio non ne avevamo bisogno, sicché li abbiamo depositati su un libretto che ora gestisce lui. Studia all’Alberghiero, si impegna, è sereno. A Lampedusa eravamo ventinove famiglie disposte ad accogliere un minore, sai in quante famiglie ci sono riuscite? Appena otto. Perché un adolescente (che costa allo Stato tra gli ottanta e i cento euro al giorno) non può essere affidato a una famiglia locale? Costerebbe meno e si potrebbe colmare l’affetto mancante derivante dalla lontananza con la propria comunità. Perché non lo fanno? È evidente, torniamo agli interessi, al fare soldi sui corpi altrui. E pensare che se ci fossero viaggi legali si eviterebbero le morti, gli scafisti, gli assassini.”  

“La mattina del 3 ottobre ho acceso il pc. Da anni, prima di iniziare a lavorare, controllo le notizie dell’ANSA. Quel giorno tutto ho fatto tranne lavorare: i morti aumentavano, avevo in testa solo le notizie allarmanti della testata giornalistica. Alle 14.00 sono andato al porto, chiedendo dell’accaduto. Non potevo entrare perché stavano portando via le prime salme. Ho risalito via Roma e visto Alex, un ragazzo eritreo, piangere seduto su un gradino qualunque. A gesti mi ha fatto capire di essersi salvato dal naufragio, ma di aver perso l’amico più caro che aveva. L’ho portato di corsa al bar, poi a mangiare a casa di mia sorella. Il giorno seguente era in compagnia di Teame, ed è scattata subito una molla d’affetto. Ogni giorno venivano a mangiare a casa nostra. Aprire la porta di casa è stata la cosa più naturale da fare. Alex e Teame sono rimasti a Lampedusa sino al 10 gennaio 2014, dopodiché sono partiti. Piangevamo come matti, separarci è stato doloroso, proprio come se partissero due figli. Oggi uno abita in Norvegia, l’altro in Olanda. Ho la pelle d’oca ogni volta che ne parlo. Qui siamo le persone più ricche del mondo: ricche di emozioni, esperienze, scambi culturali. Dopo la tragedia del 3 ottobre il sindaco Giusi Nicolini ha voluto realizzare il Giardino delle Memoria, dove sono state piantate 368 piantine, una per ogni vittima del naufragio. Ogni sopravvissuto doveva piantarne una, che rappresentasse l’amico più caro che aveva perso. Alex ha voluto me a fianco per piantare la piantina n.18. Portare un po’ d’acqua al suo amico era come dargli da bere, disse. Capisci perché siamo i più ricchi al mondo?”.  

Ognuno, attorno alla tavola, spulcia fotografie. “Ciò che ho visto nel 2011 non lo scorderò mai. – interviene Eleonora, secondogenita della coppia – Le barche arrivavano e dalle stive uscivano come formiche donne e bambini; il 18 aprile 2015 ho ripescato dalla memoria questa immagine lontana e ricordo di aver tremato. Del 2011 rammento tante cose, come fossero flash: la violenza della polizia, l’hotspot incendiato, le proteste dei migranti per strada, pestati brutalmente. E poi, le vicende personali venute dopo. Poter ospitare Alex e Teame è stata una lezione importantissima. Abbiamo stretto solidi legami dati dalla permanenza prolungata sull’isola. Sette di loro, infatti, sono rimasti fino al 10 gennaio per partecipare alle indagini in corso. Teame, in particolare, nonostante le difficoltà (scampato al traffico di organi nel Sinai, perdita della famiglia, le torture subite) dava tutto, aiutava e sosteneva chiunque ne avesse bisogno. Tra i tanti sopravvissuti è quello che ha accusato meno l’orrore dell’affondamento, poiché rodato dalle violenze precedenti”. 

Nota: l’intervista a Lillo Maggiore prosegue nella prossima intervista. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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