No alla revisione della pace con le Farc

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Che la destra colombiana, capitanata dall’ex presidente Alvaro Uribe, non abbia mai visto di buon occhio gli accordi di pace siglati dall’allora presidente, Juan Manuel Santos, era un dato di fatto. Ci si è opposta, riuscendo perfino ad ottenere il voto a favore durante un referendum che parve rimettere tutto il processo in discussione, finché non si trovò la via legale per proseguire fino alla fine, nonostante quella cocente sconfitta politica.

Alla fine del 2016, la pace venne siglata e la guerriglia delle Farc cominciò il suo transito dalla illegalità a partito politico, a cui vennero assegnati dieci seggi tra Camera e Senato. La sostanza del dibattito verte sulla cosiddetta “giustizia transitoria” che, dovendo evitare una sequela infinita di processi per crimini di guerra, dopo più di mezzo secolo di conflitto armato scelse una via “restaurativa”, dando peso a pene alternative nel caso di ammissione di colpa, impegno a non ripetere tali violenze, e collaborare a ristabilire la verità. In tali casi, la pena alternativa avrebbe puntato a restaurare la pace sociale infranta dai crimini.

Durante la sua campagna elettorale, Iván Duque, figlioccio politico di Uribe aveva attenuato i toni del dibattito polarizzato, annunciando l’intenzione di rivedere alcuni aspetti degli accordi di pace. In particolare la questione del meccanismo di “giustizia transitoria” ed anche la questione della riparazione dei danni patiti dalle vittime. Va tenuto conto che moltissimi agricoltori persero i loro terreni per il conflitto, spesso per opera dei latifondisti che in Colombia sono molti. Uno dei motivi che diede origine al conflitto armato, fu proprio la questione delle disuguaglianze originate dal latifondo. L’idea di rimettere in discussione i diritti di proprietà non è mai piaciuta alla destra, spesso vicina ai latifondisti.

Ciò che però sfuggiva a Duque e al governo era che promuovere una revisione di un accordo di pace, negoziato tra due parti e non unilateralmente, avrebbe supposto rimettere in discussione equilibri delicati. Quando poi Duque riprese in considerazione l’idea di applicare l’estradizione nei confronti dei guerriglieri macchiatisi di narcotraffico e richiesti dalla giustizia degli Stati Uniti, la questione ha assunto un aspetto ancora più delicato, dato che il trattato di pace e la giustizia di transizione non contemplano tali ipotesi. All’interno delle Farc, in quanto partito, apparvero segni di nervosismo.

Uno dei leader, Iván Márquez, ha scelto la via della clandestinità, anche perché dalla firma della pace non sono cessati gli assassinii di attivisti sociali ed anche di alcuni ex guerriglieri. In tale contesto, Márquez ha affermato che consegnare le armi sia stato un errore. Ma è stato immediatamente redarguito dal massimo esponente delle Farc, Rodrigo Londoño, che ha invece riaffermato la volontà del collettivo politico di sostenere gli accordi. Ciò nonostante la volontà di Duque indicava la possibilità che il governo facesse marcia indietro dopo anni e anni di negoziati. La decisione ormai era in mano alle istituzioni e queste hanno risposto con chiarezza. Sia la Camera che il Senato hanno bocciato il progetto di rivedere gli accordi. Duque ha allora intrapreso la via del ricorso presso il Tribunale costituzionale.

Le scorse settimane, i giudici hanno respinto la tesi di Duque rigettando il ricorso e sentenziando che già due volte il Parlamento si era rifiutato di modificare gli accordi di pace, e pertanto l’esecutivo doveva prendere atto di tale decisione sovrana. D’altra parte gli accordi sono a suo tempo stati vagliati favorevolmente sul piano costituzionale. Non c’era altro da fare se non adempiere a quanto stabilito in essi, piaccia o no.

Alberto Barlocci da Cittanuova.it

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