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Mirta, Ana Maria, forse Camila: storie di donne argentine
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Mirta, Ana Maria, forse Camila. Tre donne, tre generazioni, Mirta, prima mamma e poi nonna, ha lottato per avere verità e giustizia per le sua figlia e sua nipote e oggi continua a lottare per mantenere viva la memoria. Ana Maria, sua figlia, non ha potuto portare a termine le sue lotte per un paese più giusto, perchè sequestrata e detenuta illegalmente, oggi è ufficialmente desaparecida. Camila o forse Ernesto (non ha mia saputo se sua figlia diede alla luce una bambina o un bambino), che ora vive senza sapere chi fossero i suoi veri genitori. Storia di una donna argentina, che insieme a tante altre ha reagito alla violenza del terrorismo di stato e della guerra sporca messa in atto dai dittatori durante l'ultimo regime militare instauratosi ne 1976 e terminato ne 1983.
Mirta Baravalle è una delle madri che il 30 aprile del 1977, insieme ad altre 13 donne - si è presenta alla Casa Rosada per sapere che fine avesse fatto sua figlia Ana Maria, sequestrata dai militari nell'agosto del '76 insieme al suo fidanzato. Davanti alla sede del governo Mirta non era la sola, c'erano altre madri che facevano al governo la stessa domanda, senza avere risposte. Da allora tutti i giovedì si incontrano per la ronda, una manifestazione di protesta per chiedere verità e giustizia.
Sono le Madri di Plaza de Mayo, madri che hanno perso i loro figli perchè considerati sovversivi o comunque pericolosi per il regime argentino, madri che però non si sono rassegnate e hanno trasformato il loro dolore in forza. Ancora oggi il giovedì si incontrano davanti alla Casa Rosada. E' passato tanto tempo da allora ma non hanno ancora avuto le risposte che cercavano. Il loro coraggio e la loro tenacia sono senza dubbio un esempio per tutte le donne. Grazie alle loro denunce fatta ai giornalisti francesi durante i mondiali di calcio del 1978, il mondo intero ha saputo cosa stava succedendo in Argentina. Mirta oggi fa parte delle Madres de Plaza de Mayo Linea Fundadora dove lavora per mantenere viva la memoria di quello che è successo, e dell'associazione Abuelas de Plaza de Mayo che lavora per ritrovare i bambini nati durante la detenzione delle loro mamme.
Una chiacchierata con la signora Baravalle
Come sono andate le cose?
La notte del 27 agosto 1976, entrarono in casa più di 20 persone, misero sotto sopra la casa e portarono via mia figlia Ana Maria che allora era incinta, e il suo fidanzato. Portarono via anche tante cose, i vicini si accorsero di tutto, il quartiere era come assediato da camionette militari e da Ford Falcon.
Cosa avete fatto dopo?
La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di denunciare la cosa al commissariato, ma le cose non erano semplici. Non si trovavano avvocati, molti erano già stati fatti sparire, ma ne trovammo uno che ci aiutò a presentare la denuncia.
Quando avete deciso di unirvi come madri?
Quando andavamo a chiedere notizie ai commissariati, iniziammo a confrontarci per capire se a tutti dicevano la stessa cosa. Le risposte erano sempre vaghe, a volte persino offensive, allora decidemmo di unirci. Eravamo 14 madri e andammo tutte insieme per la prima volta davanti al palazzo del governo il 30 aprile del 1977. L'esercito era schierato ma noi insieme ci sentivamo forti, pensavamo che stando vicine potevamo avere le risposte che cercavamo e non avevamo ancora idea delle atrocità che stavano vivendo i nostri figli.
Cosa pensavate?
All'inizio pensavamo che fosse una dittatura come tutte le altre, ma in Argentina di stava giocando una partita molto più grande, si stava cercando di mettere in atto il Plan Condor in tutta l'America Latina e qui si stavano incontrando troppe resistenze. I nostri figli avevano capito che si puntava alla svendita del nostro paese e di tutte le sue ricchezze, per questo si opponevano, ma nessuno pensava a tanta violenza e atrocità. I prigionieri politici c'erano sempre stati, erano messi in conto ma tutto il resto no.
Crede che ci possa essere giustizia?
Io non credo più alla giustizia come sistema, i processi vengono continuamente bloccati, o mancano le prove, sono successe troppe cose da allora a oggi. Posso credere in qualche giudice ma la giustizia in sè è inadeguata.
Come mai si è creato un movimento di donne, gli uomini non vi hanno supportato nella vostra lotta?
No, non è andata così. In quel periodo gli uomini erano nel mirino dei militari, molto più di noi. Eravamo noi stesse a preferire che loro non si esponessero, all'inizio venivano anche alcuni padri insieme a noi, ma poi abbiamo preferito continuare da sole. Agli occhi dei militari noi donne eravamo più deboli e gestibili, nonostante la nostra forza.
Lei ha un nipote...
Si, non so se è Ernesto o Camila, e non so neppure dove sia. So solo che oggi avrebbe 32 anni. Oggi insieme alle Abuelas (nonne) stiamo lavorando per ritrovare i nostri nipoti. Abbiamo una sede fisica e la gente ora può venire a raccontarci le loro storie o a risolvere un dubbio sulla propria identità.
Che senso ha oggi la memoria?
La memoria è importantissima, solo mantenendo viva la memoria di quello che è successo possiamo pensare che questi terribili fatti non si ripetano più.
Cosa possiamo fare dall'Italia per sostenervi?
La cosa più importante per noi è che la memoria si trasmetta, che i nostri desaparecidos non vengano dimenticati, cosi come i loro pensieri. Qualsiasi iniziativa che li ricordi per noi è importante. Hanno eliminato una intera generazione ma il loro pensiero per una società più giusta deve rimanere. Una volta un militare mi disse: “Sua figlia non aveva armi fisiche ma aveva armi molto più pericolose: le sue idee”.
Elvira Corona