Lidia Menapace: gli esiti delle privatizzazioni nelle ferrovie

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So che in genere si ama discutere di privatizzazione (liberalizzazione, ecc.) in generale e un po' in astratto, e quasi a mo' di principio. Credo sia un atteggiamento non proficuo e che puo' generare confusione. Bisogna stabilire dei criteri. A me pare che sarebbe giusto sostenere che debbono essere "spazi pubblici", intendendo con cio' gestiti o in proprieta' o sotto controllo pubblico (federale, statale, regionale, municipale, ecc.), i servizi che servono alla collettivita' (energia, trasporti, scuola, sanita', pubblica amministrazione) mentre altre attivita' possono essere lasciate al mercato.

Privatizzare i servizi generali significa mettere alcuni aspetti dei beni comuni sotto il controllo del mercato con le sue forme storicamente determinate. Cio' stravolge il significato del servizio stesso, che infatti assume tutto il linguaggio, la nomenclatura e la logica dell'impresa: la scuola, l'ospedale, le carceri, i treni diventano "imprese". Non si tratta di mere modificazioni terminologiche ma sostanziali.
Ma - ci si potrebbe chiedere - e se poi funzionasse? ad esempio un ospedale che ricoverasse soltanto secondo i limiti dei rimborsi che puo' avere dalle assicurazioni che ciascuno sottoscrive? E lo stesso le pensioni? e la scuola? Non occorre fare l'esperimento dato che il primo significativamente in atto e' molto negativo: da quando le ferrovie sono state rivatizzate
vanno molto peggio, proprio sotto il profilo di servizio.
*
La stazione ferroviaria, che e' un luogo pubblico, viene chiusa molte ore al giorno e non puo' essere usata di notte; non vi sono fontanelle in molte stazioni anche grandi: chi vuole un po' d'acqua deve comprare dalle macchinette (se funzionano) acqua minerale sempre costosa e con spreco; l'obliterazione dei biglietti mette a confronto con le famose macchinette
gialle delle quali una su tre di solito non funziona, e obbligano i
viaggiatori e le viaggiatrici a maratone lungo i binari.
Naturalmente ci chiamano "clienti", e mi illudevo che cosi' avremmo sempre avuto ragione. Invece no: luoghi tempi e modalita' per far valere le proprie ragioni e richiedere il risarcimento di danni (rimborsi di biglietti, ritardi, informazioni eccetera) sono complicati e non sempre a disposizione. Essendo una grande utente del treno noto un peggioramento continuo. I e le ferroviere sono - e' vero - meglio vestiti e riforniti di una divisa sempre in ordine, ma non possono piu' dare informazioni perche' le ferrovie non sono piu' un corpo di vari addetti che compongono il benessere di chi viaggia: sono segmenti di operazioni ciascuna delle quali risponde solo del
suo pezzetto.

Capita con sempre maggiore frequenza che i bagni siano sporchi o guasti, che le porte, i finestrini, l'aria condizionata eccetera, funzionino poco e male: se si chiede al ferroviere risponde che al massimo puo' appiccicare un foglietto con su' scritto "guasti", ma non fare arrivare il rilievo a risoluzione perche' le pulizie e la manutenzione sono appaltate ad esterni e non vi e' comunicazione col personale, e in ogni caso non vi e' nessuna relazione funzionale. Cio' vale per le pulizie, ed e' gia' abbastanza spiacevole; ma se vale anche per la manutenzione diventa anche pericoloso.
In conclusione, gli e le addette alle pulizie delle stazioni - che da giorni scioperano dato che le ferrovie non pagano quanto pattuito con le imprese che hanno vinto gli appalti al minimo - ci dicono che il tutto non funziona se non sfruttando la fame di lavoro e la pazienza di chi viaggia.

Credo che bisognerebbe fare causa comune e dire che anche in questi settori bisogna andare oltre il precariato e ricostituire un servizio pubblico controllabile e giudicabile dal pubblico.
La farsa sull'ospitalita' di Trenitalia e altre baggianate copiate al trasporto aereo non sono utili e fanno anche ridere o imprecare; sorprende soprattutto la dizione: "si augura di ospitarvi ancora a bordo dei suoi treni", perche' e' ipocrita chiamare ospitalita' qualcosa pagata, e i treni non sono delle ferrovie, ma dei contribuenti.

Fonte: Centro di ricerca per la
pace di Viterbo

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