Lettera aperta a Bush

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L'editoriale del numero di maggio di Cem Mondialità scritto da Arnaldo De Vidi

George W. Bush
Sei il presidente di un grande Paese che amo. Io amo l'America di Lincoln, Martin Luther King, Hemingway e Rachel Corrie... Sono anche stato ospite dell'America. Ricordo che m'ero iscritto ad un corso di World Drama alla Santa Clara University (California): nonostante fossimo solo in quattro alunni, il corso è proceduto serio, con una insegnante stupenda che veniva dalla prestigiosa università di Stanford. Come potevo non ammirare l'America? Ne apprezzavo la fusione di presente e passato, Est e Ovest, la sua democrazia, i laboratori socio-culturali delle sue metropoli, la filantropia di largo respiro, la ricerca scientifica, l'arcipelago di etnie, quell'incipit della Costituzione Tutti gli uomini nascono uguali; l'America con diritto di asilo per i perseguitati dai regimi totalitari e una civiltà moderna aperta "in svolgimento". L'America di Poe, Emily Dickinson, Whitman, Frost, Langston Hughes (poeta afroamericano), Momaday e Joy Harjo (nativi), Isaak B. Singer (di lingua yiddish), Gary Soto (messico-americano), Ginsberg e Ferlinghetti, Bob Dylan e Joan Baez.
Ricordo un testo di Melville: "Non si può versare una sola goccia di sangue americano senza versare il sangue del mondo intero. Inglese, francese, tedesco, danese o scozzese che sia, l'europeo che deride un americano deride un fratello... Noi siamo gli eredi di ogni tempo, e dividiamo la nostra eredità con tutte le nazioni". Forse per questo dopo la tragedia dell'11 settembre tutte le nazioni si sono strette solidali attorno all'America, anche dimenticando tanti massacri da essa compiuti.
Ma tu, George W. Bush, hai rotto l'incanto. Tu, cowboy petroliere larva di John Wayne, fantoccio dei signori della guerra, eletto da meno di un terzo degli aventi diritto al voto. Hai fatto nascere il sospetto che nell'assalto alle torri tu fossi coinvolto: hai reagito come seguendo un copione. Come se quello fosse fuoco amico, effetto collaterale della tua ascensione negli indici di gradimento (da 40 a 75%). Come un alleato nel terrorismo ad Al Qaeda, sei partito per la guerra, anzi hai mandato i giovani americani poveri alla guerra. Hai usato le tue armi di distruzione di massa (shock and awe) dicendo che cercavi le altrui. Hai imbavagliato la democrazia e comprato l'omertà dei paesi del terzo mondo, mostrando quanto è vera quella sentenza che la prima vittima della guerra è la verità. E l'altra sentenza: la giustizia diserta il campo del vincitore. Sei come Sharon e Putin: giudichi che la soverchiante forza militare sia l'antidoto al terrorismo. Sei tu e non i tuoi nemici il pericolo per la pace.
La tua vittoria su Saddam (con proporzione di forze 167x1!) è stata la vittoria di Pirro. Adesso sei agli ozi dal buon senso (non dalla guerra perché già ne stai preparando un'altra). Ma il buon senso, George, non è nella tua natura, né è di casa al 1600 di Pennsylvania Avenue. Vuoi una prova? Sei stato l'unico capo di stato che non ha firmato l'accordo sull'effetto serra. Hai detto insomma così: Il pianeta è un Titanic che affonda adagio e mentre affonda (per colpa mia) io sarò in prima classe a leggere commenti della Bibbia e ascoltare Beethoven. Che ne sai tu di Beethoven e di Bibbia? Il tuo nominare il nome di Dio è insano. Se hai una vocazione, è di rendere gli americani dei paria e l'America una gigantesca repubblica delle banane. Si, perché solo per un po' sarete odiati, in futuro sarete commiserati. Tu invecchierai (in questo XXI secolo che doveva essere americano) perseguitato dai fantasmi della Enron, dello scudo spaziale e dei 500mila bambini iracheni vittime dell'embargo.
Sono triste e arrabbiato, perché - lo confesso - sono filoamericano. Certo non fanno un buon servizio all'America i tuoi adulatori inglesi, spagnoli e italiani che si proclamano filoamericani anche nel disprezzo per la vita e per l'Organizzazione delle Nazioni Unite.
George W. Bush, con me ti condannano i migliori americani e i bambini.
Io piango per l'America e non voglio lasciarmi consolare perché non c'è più.

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