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Leggiamo per informarci, o leggiamo per cercare conferme?
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Foto: Unsplash.com
Quando leggo un articolo che parla dei diritti delle donne la parte che più mi interessa è relativa ai commenti. C’è del masochismo in questo, lo riconosco; e tuttavia leggerli riporta uno spaccato di Italia che aiuta a capire qual è il percepito reale.
Prendiamo ad esempio una pubblicità, che personalmente mi ha fatto sorridere. Ecco alcuni commenti: “Molto divertente, anche se ovviamente a parita' di lavoro ed esperienza le donne sono pagate come gli uomini”, “a dire il vero le donne, a parità di lavoro, anzianità, esperienza e competenza sono pagate 7 centesimi in più per via di tutti gli incentivi di cui gioiscono”; “Basta con sta retorica che non ha fondamento”; “Ma ancora Co sta stron*ata?capisco che fa vende però piggod”.
Tutti possiamo avere un’opinione: poi ci si può interrogare sul bisogno di esprimerla sempre e comunque; o magari sulle modalità con cui spesso viene espressa; o magari ancora sul fatto che non si può avere un’opinione su tutto, perché informarsi a dovere su qualsiasi argomento è impossibile. Bisognerebbe poi ricordarsi questo: le opinioni è non sono verità assolute. Spesso ce ne dimentichiamo, e reagiamo in maniera più o meno aggressiva a chi argomenta diversamente. Inoltre la tendenza nelle discussioni è quella di cercare conferme di ciò che pensiamo, non di capire effettivamente una situazione o cercare informazioni al riguardo. In un suo articolo, Annamaria Testa li definisce “bias di conferma”, e si presentano quando (cito): “ci ostiniamo a ignorare tutte le evidenze che contraddicono le nostre convinzioni, in primo luogo (ma non solo) quelle politiche o religiose”.
È quello che succede nella maggior parte delle discussioni: si presentano dei dati. Qualcuno afferma di non essere d’accordo. Si spiegano i dati. La risposta è che i dati sono falsati, interpretabili, faziosi. Allora si propongono altri studi, ma la risposta è sempre la stessa, in un circolo vizioso da cui non si esce. Più o meno è quel che è successo coi commenti riportati in alto: alcune persone hanno provato a rispondere, senza che la discussione andasse in direzione alcuna. Sui social accade spesso. Solo lì? Non saprei.
Quando si parla di diritti delle donne – inevitabile appena ci si avvicina all’8 marzo - le posizioni si fanno talmente rigide che il dialogo diventa difficilissimo; anche nei casi in cui esistono dati incontrovertibili. Prendiamo il gender pay gap – la differenza di stipendi tra uomini e donne - visto che se ne parla nella pubblicità riportata.
Se consideriamo il lavoro retribuito, secondo uno studio realizzato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (riportato da Internazionale) in Europa le donne in media guadagnano il 15 % in meno degli uomini. In Italia sembra andare meglio: il divario c’è, ma comunque è del 5% (fonte: Istat), con una differenza significativa tra chi lavora nel pubblico e chi nel privato. Un’immagine utile e che rende subito l’idea a livello visivo è questa, sempre elaborata dall’Istat.
Sembreremmo quindi messi meglio (finalmente una buona notizia) se non fosse che le donne lavoratrici in Italia sono poche. La percentuale di uomini che lavora è del 75 %, quella delle donne è del 56 % (fonte: Censis). Per tracciare un paragone, nei Paesi del nord in entrambi i casi il tasso di occupazione è intorno all’80 %. Inoltre, un terzo delle donne che lavora è occupato a tempo parziale – a fronte dell’8,5 % degli uomini. Il Censis riporta: “Lungi dal rappresentare una forma di emancipazione e una libera scelta, il lavoro a tempo parziale è subito per mancanza di alternative da circa 2 milioni di lavoratrici (è involontario per il 60,2% delle donne che hanno un impiego part time)”.
Tralasciamo volutamente una serie di questioni di cui si è ampliamente dibattuto: contratti che non vengono rinnovati in caso di maternità, colloqui di lavoro dove viene chiesto se si ha intenzione di avere figli, mobbing al rientro della gravidanza, licenziamenti in bianco. A tutto questo si è andata sommando la crisi creata dalla pandemia: il 6 marzo l’Ansa riportava come, tra aprile e settembre 2020 in Italia ci sia stato un calo dell’occupazione femminile doppio rispetto alla media Ue.
E quindi riassumiamo: noi donne lavoriamo meno, e molto spesso questa non è una libera scelta; anche quando lavoriamo, veniamo pagate meno; ed in più, rischiamo di perdere il lavoro in misura maggiore rispetto agli uomini. Questi sono i dati, riportati da almeno tre studi diversi.
Come se ciò non fosse sufficiente, è necessario (seppur doloroso) affrontare una riflessione rispetto al futuro che aspetta queste donne: le pensioni sono calcolate in base allo stipendio percepito, e se lo stipendio è più basso (vuoi per ingiustizia, vuoi perché part-time) il rischio di trovarsi in situazioni di povertà è alto. Vale la pena ricordare che se sei povera spesso sei anche vulnerabile: se dipendi dal tuo marito o dal tuo compagno ma lui – ad esempio – è violento, come farai a lasciarlo?
Nel mezzo di questa crisi, ecco le polemiche sulla linguistica – fomentate anche dai mezzi di comunicazione che cercano lo scontro. È notizia di questi giorni che Beatrice Venezi voglia essere chiamata direttore d’orchestra e non direttrice. Prima di lei il dibattito era comunque vivo e presente, e riguardava altre professioni – ministra, assessora, avvocata, ecc. Qui vorrei proporre quattro riflessioni: una di carattere normativo, una di carattere culturale, ed infine una di carattere personale.
A livello normativo, direttrice esiste (come esistono, con lo stesso suffisso, attore ed attrice); quindi nel suo caso definirsi direttore è banalmente un errore di grammatica. La grammatica non è un’opinione, chi non è convinto lo invito a leggere qualsiasi testo – oppure il sito della Crusca, che si è spesso espressa sul tema.
A livello culturale, la scelta rispecchia un maggior prestigio attribuito al maschile, e figlio della cultura patriarcale che abbraccia tutta la nostra società. A chi non si ritrova in questa considerazione, lascio il link al monologo di Paola Cortellesi: ci troverà spunti interessanti.
A livello personale infine, ognuno può farsi chiamare come vuole; se sono sul palco dell’Ariston però, esco dal personale e ne devo rendere conto.
Nel caso della direttrice, rifletterei su questo: queste resistenze verso alcune parole nuove che descrivono realtà che prima non esistevano ma adesso sì ed il bisogno disperato di ignorare alcune regole che pure esistono da tempo immemore sono due facce della stessa medaglia. La domanda è: cosa dicono di noi, di chi siamo come individui e come società?
Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.