Le strategie del movimento nella terza fase

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Il tema del terzo forum sociale mondiale, che si sta' svolgendo in questi giorni, è "le strategie del movimento". Mario Agostinelli, pubblica un contributo interessante alla riflessione sulle strategie, sulla fase che il movimento attraversa e sulle prospettive.

Dal rifiuto alla proposta

"Un paese con le pile scariche": così De Rita ha definito la società italiana, probabilmente confondendo, come ormai fa gran parte della classe dirigente, la salute dell'economia con la società e le sue risorse di autonomia e di reattività.

Chi ha vissuto l'esperienza del Social Forum Europeo, chi lotta quotidianamente per i diritti e la giustizia, chi riempie settimanalmente piazze e strade di un paese che le televisioni e gli organi di stampa vorrebbero assopito, distratto e domo di fronte a un'offensiva sociale e istituzionale avventurista ma non per questo meno devastante nelle intenzioni di quella intentata dalla Thatcher sulla sconfitta delle Unions inglesi, avrà avuto un sussulto di stupore e di irritazione.

Aldo Bonomi, per solito molto acuto, sul "Corriere della Sera" ha provato a contraddire l'impressione del noto sociologo citando la vitalità del capitalismo molecolare sopravvissuto al tracollo degli aggregati più tradizionali, in ciò compiendo, credo, lo stesso errore di prospettiva del suo 'maestro'. I motori che hanno spinto questo sviluppo ineguale, e che hanno culturalmente informato il pensiero unico, in effetti cominciano a battere in testa, ma, al contrario, nella società e, in particolare tra le nuove generazioni, si fanno largo il desiderio e la ricerca creativa di un futuro che non sia la semplice proiezione di questo presente.

Che questa sensazione sia emersa a Firenze in occasione di uno straordinario appuntamento di massa in Europa, cioè in un punto alto di produzione di ricchezza e di appropriazione delle risorse, è ancora più significativo di quanto accaduto a Porto Alegre, nel Sud meglio organizzato del pianeta. Non si dovrebbe dimenticarlo tanto facilmente. Questo percorso, da Seattle a Genova e poi, da Porto Alegre 2002 a Firenze verso Porto Alegre 2003, registra una trasformazione profonda del movimento da oppositivo ad alternativo, dal rifiuto alla proposta. Non a caso nell'identità di cittadini del mondo in costruzione viene a maturazione l'esclusione definitiva della violenza, lasciata come la guerra, all'altro campo, strumento di esclusione e di mantenimento di rapporti permanenti di sudditanza. Si capisce l'insistenza con cui gli avversari cercano di riportare la valutazione sulle giornate toscane (e poi sulle imponenti e tranquille manifestazioni di Cosenza, Genova e Copenaghen in risposta alle provocazioni dei giudici e della polizia) alle questioni dell'ordine pubblico, del mancato incidente, di un passato confezionato con simboli atti a cancellare le novità di questa fase nuova.

C'è una linea tenace che ispira l'azione di lunga lena dei poteri conservatori per assediare e isolare il più grande, promettente e duraturo fenomeno sociale di massa degli ultimi trent'anni: negare che sia fonte di ragionamenti ampiamente condivisi e non solo di piazze calde; cancellare incontri, assemblee, strade piene, seminari, scambi fitti nelle reti in costruzione con l'arroganza di una politica che ha fatto a pezzi ogni rappresentanza sociale non riconducibile agli interessi dominanti, fino a ridurre lo spazio democratico pubblico a una rappresentazione mediatica tra élites professionali in cui il cittadino figura solo come spettatore. Ma questa pericolosa forzatura va vanificata ribattendo colpo su colpo a ogni azione repressiva e, nel contempo, svincolandosi dalla presa che vorrebbe costringere il movimento su posizioni di rifiuto, per valorizzare tutte le componenti progettuali, gli sforzi di competenza, i dialoghi, gli ascolti, gli scambi fruttuosi, le alternative praticate da cui l'opinione pubblica è abilmente distolta.

C'è una capacità ormai di procedere, convergendo anche da identità differenziate e conservate tali, che include e assimila culture e soluzioni non coincidenti, ma messe tra loro in contaminazione feconda. Questa caratteristica è nuova anche per la sinistra e produce modifiche anche nei comportamenti politici, come si ha frequentemente occasione di verificare nelle innumerevoli assemblee e riunioni che si attivano a cascata nei territori. Questa vitalità, questa innovazione di metodo e contenuto, la coscienza di percorsi non episodici, il protagonismo di una generazione che prova attenzione per la cosa pubblica, la riemersione del lavoro come valore, la prospettiva di costruzione di un'Europa dal basso, inducono a ragionare su tempi lunghi e a superare la sindrome da sconfitta che ha spinto la sinistra troppo a lungo su posizioni rinunciatarie. C'è un tratto di radicalità e di unità così 'ragionevolmente' evidente che ha spinto in secondo piano la rincorsa al centro di ogni programma politico elettorale in cui si è dovuto identificare negli ultimi anni l'impegno dei gruppi dirigenti.

Il compito che ci assegnano le giornate di Firenze potrebbe essere vanificato solo dalla sottovalutazione delle potenzialità già in atto o dallo scarso ascolto che la politica riserva a un processo che non si è dato i tempi della contesa elettorale e che reclama ben altra partecipazione di quella prefigurata dall'ingegneria istituzionale avvitatasi sulla governabilità. Per queste ragioni tralascio ogni descrizione ulteriore del Forum Sociale Europeo, che pure richiederà supplementi di analisi e di recupero di documentazione, per provare ad avventurarmi su tre punti di prospettiva che si sono aperti e che andrebbero ulteriormente confermati dopo la manifestazione fiorentina.

La critica all'organizzazione del lavoro e alle finalità della produzione

Nel docento conclusivo di Porto Alegre 2002 un punto distinto era dedicato al 'lavoro informale', quello deprivato di diritti contrattuali e giuridicamente ignorato come aspetto patologico di un dumping sociale praticato dalle imprese transnazionali alla minimizzazione dei costi su scala planetaria. Una sottospecie, in concorrenza, del lavoro strutturato confinato nei paesi industriali in forme sempre più ridotte. Il 'cuore' del lavoro nei punti di massimo sviluppo, la sua crescente precarizzazione, la decontrattualizzazione che ne colpiva già la sostanza e che frammentava gli antichi soggetti sociali come conseguenza del superamento del patto fordista e dell'abbandono del modello taylorista, erano del tutto assenti dal dibattito del Forum Mondiale. La presenza dei grandi sindacati - della Cut brasiliana, dell'Afl-Cio americana, della Ces europea, del Cosatu sudafricano e della Cisl internazionale - portava il segno di una testimonianza di preziosa vicinanza ai movimenti convenuti nel Rio Grande do Sul, soprattutto (a parte la CUT più direttamente impegnata nel dialogo) con le grandi organizzazioni sociali come i Sem Terra, per una timida condivisione della critica alla globalizzazione. In occasione della preparazione del Fse, anche a seguito delle manifestazioni comuni di Nizza, L㦀ken e Barcellona e della spinta impressa in Italia dalla Fiom e dalla Cgil, vengono invece messe in comunicazione le lotte per il lavoro e i suoi diritti con la convinzione che la crescita economica nel modello liberista non equivalga allo sviluppo sociale e alla solidarietà con le future generazioni.

Il movimento dei movimenti riesce a portare in cortocircuito europeo e a dare valenza sovraterritoriale a questioni emblematiche, e non solo nazionali, come quella dell'Art.18 e dello smantellamento delle garanzie nel rapporto di lavoro, che il sindacato europeo, al contrario, non è stato ancora in grado di portare al centro di una vertenza su scala comunitaria. Così, mettendo al centro dell'attenzione le questioni della precarietà strutturale e della flessibilizzazione unilaterale della prestazione di lavoro si fondano le motivazioni per dar vita a un nuovo soggetto della rappresentanza, a un obiettivo della contrattazione, alla ricostruzione della democrazia sindacale, cessando confinarle a oggetto di attenzione solidaristica o di preoccupazione formale della concertazione. Si apre qui una possibilità nuova per porre in relazione, attraverso la critica del modello di consumo, diritti e potere nei luoghi di lavoro e finalità della produzione.

Non siamo alle riscoperta di indirizzi alternativi che, attraverso i partiti operai, i piani del lavoro dei sindacati di classe, gli obiettivi di sviluppo nazionale della Federazione sindacale unitaria, venivano rivendicati sul versante dell'offerta, soprattutto con le politiche industriali. Siamo invece di fronte a un vincolo di comportamento collettivo e individuale vissuto sotto il profilo della responsabilità, che richiede un impegno, come parte del movimento, anche ai lavoratori in quanto consumatori e che impone modelli di vita compatibili con l'ambiente e la giustizia sociale, pena la distruzione della base naturale e la messa in discussione della possibilità di sopravvivenza delle future generazioni. Un'ambizione di lungimiranza squisitamente politica, non raccolto dal paradigma economico che domina la globalizzazione, una pressione diffusa sul versante della domanda, un cambiamento dei prodotti, un carico energetico e alimentare qualitativamente e quantitativamente mutato, che deriva dal sentirsi cittadini del mondo e che si lega ragionevolmente al rifiuto della guerra. Quella guerra che Bush, prima di definire preventiva e permanente in nome del terrorismo, aveva già evocato con la non negoziabilità dell''american way of life'.

Questa importante novità di una rappresentanza del lavoro che, grazie alla contaminazione con le culture con cui entra in contatto nel movimento, torna a discutere anche di 'cosa produrre', non dispiega ancora del tutto la sua carica dirompente perché, credo, è ancora troppo debole la critica del 'come produrre', ovvero dell'organizzazione del lavoro, il nodo più estromesso dalla pratica di contrattazione sui luoghi di lavoro.

Nell'analisi, negli anni più recenti notevolmente raffinata, della globalizzazione neoliberista è sorprendentemente uscita di scena la constatazione che al modello taylorista abbiamo sostituito paradigmi incerti e confusi, accomunati solo dal prefisso 'post', senza sufficiente sforzo interpretativo e unificante, con scarsa attitudine a ricostruire i nessi, i flussi, i raccordi e le concatenazioni nel ciclo produttivo, ben lontani dall'impegno scientifico e tecnico che invece le forze produttive capitalistiche hanno immesso in quella direzione. Non sappiamo quasi nulla dei software che scandiscono le modalità organizzative del decentramento, dei protocolli che governano le reti, dei criteri di accesso e di costruzione delle banche dati, dell'organizzazione e della struttura delle conoscenze e della stessa gerarchia del Web o, infine, della progettazione dei motori di ricerca che così tanto incidono sulla pratica lavorativa di milioni di persone messi in relazioni da strumenti di natura neurale e non più meccanica. Ma nemmeno siamo sufficientemente a conoscenza della fine che hanno fatto i controlli o le macchine transfer dopo lo smembramento dei grandi reparti; o quale sia la logistica effettiva che incontriamo quotidianamente sotto la forma degli ingorghi stradali; o cosa presieda alla localizzazione delle centrali ormai integrate su scala continentale e sottratte a qualsiasi pianificazione pubblica. Così può capitare che in una vertenza cruciale come quella FIAT si fondano lavoratori e organizzazioni di movimento ai presidi dei cancelli in rivendicazioni comuni per la difesa dell'occupazione; che le donne di Termini Imerese diventino un soggetto fino a ieri impensabile per una battaglia di civiltà; che ad Arese si individui lo spazio per un discorso sulla mobilità che vada oltre l'auto tradizionale. Ma anche che, alla fine, scivoli in secondo piano il fatto inaudito che azienda e governo firmino insieme un accordo che impone ai lavoratori di tutti gli stabilimenti l'adozione della stessa organizzazione del lavoro - tempi, ritmi, carichi, saturazioni -di Cassino l'unità a più intenso sfruttamento. Siamo cioè di fronte a un'azienda globale e all'esecutivo di uno Stato 'fondato sul lavoro' che in assoluta sintonia travisano il ruolo più genuino di rappresentanza dei lavoratori e pongono in relazione diretta la salute dell'impresa con lo sfruttamento intensivo del lavoro.

La costruzione di un'Europa dal basso

Quando a gennaio 2002, nella città del Rio Grande do Sul, era stata lanciata la proposta di Forum regionali in vari continenti per specificare e 'territorializzare' gli spunti provenienti dal grande raduno brasiliano valorizzando le differenze, apparve subito problematico riconiugare la linea antiliberista elaborata a partire dal Sud del mondo in uno dei punti alti dello sviluppo e della concentrazione del potere globale. Infatti già nella preparazione del Fse emergevano temi inediti e rilevantissimi come quello della 'fortezza' Europa, delle destre xenofobe, della privatizzazione dell'istruzione e dei sistemi di Welfare. Inoltre, rischi di 'terzomondismo' o di 'internazionalismo caritatevole' - a copertura delle responsabilità di dominio del vecchio continente, o perfino di acritica esaltazione di un modello sociale invidiato, ma in arretramento sotto i colpi di una competizione a cui la stessa Ue non offre alternative - avrebbero potuto depotenziare l'appuntamento e ridurlo a un incontro più rituale che problematico e creativo. Invece, proprio in Europa si è assistito, più che altrove, alla liberazione di forze oltre lo Stato Nazione e alla ricerca di una dimensione politica continentale che si va materializzando nel comune rifiuto della guerra, nell'estensione dei diritti sociali, nella ridefinizione dei confini, sia nei confronti dell'Est, che delle barriere ai migranti.

Si può ben dire che si è posta la questione di una alternativa dal basso per l'Europa e che essa, entrata nel Fse per la finestra in modo confuso, vi ha fatto un rientro solenne per la porta principale. La sensazione che sia nato un movimento sociale con orientamenti veramente globali aiuta a superare i timori che l'eurocentrismo e la concezione di una 'fortezza Europa' contribuiscano a rafforzarne l'appartenenza alla costellazione dominante del mondo. D'altra parte, la prospettiva che si realizzi un'Europa politica diventa realistica con il superamento di una pura contrapposizione o divaricazione tra i movimenti sociali e le azioni dei governi: solo facendo incontrare e confliggere questi attori si avvicina la possibilità di un'Europa di un modello di democrazia sociale funzionale alla rottura dell'asse neoliberista mondiale, oggi altrimenti in via di rafforzamento. Perché questo accada, è necessaria una lotta politica per recuperare e attualizzare una eredità sociale e culturale per rimettere a frutto il lascito di forme politiche indebolite dalla riduzione del pluralismo sociale dovuto all'estensione del maggioritario e dalla scarsa rilevanza del lavoro nei programmi dei partiti.

I presupposti per uno sviluppo positivo ci sono tutti.

Dopo l'11 settembre è venuta alla luce una definizione dell'Europa per contrasto al progetto di Bush di esercitare il governo mondiale attraverso la guerra permanente sostenuta da una visione 'morale' (in realtà fortemente ideologica e integralistica) del proprio compito nel mondo. Il movimento del Fse se ne è fatto carico in positivo, collegando il rifiuto della guerra all'unità del mondo, all'universalità dei diritti, alla conversione a modelli di vita e di consumo sostenibili, alla democrazia e alla partecipazione. Ha così dato vita a una embrionale idea di sovranità in formazione. Così, il 'popolo europeo', fonte sostanziale di sovranità finora elusa nella moltiplicazione di rappresentanze corporative degli interessi liberisti, ha trovato in questo movimento una traduzione seppur parziale delle sue richieste in tema di bisogni, scelte e contenuti attraverso cui la società riprende il sopravvento sull'economia. E la stessa Convenzione presieduta da Giscard d'Estaing dovrà fare i conti con questa sorprendente novità, già a partire dall'esito dell'accoglimento e della modifica migliorativa della Carta di Nizza.

Tutto ciò influenzerà lo svolgimento del Forum Mondiale di Porto Alegre 2003. Nel paese in cui l'esperienza di una sinistra radicale ha trovato, con Lula, una rappresentanza che ha conquistato la maggioranza elettorale, la crescita di una possibile alternativa in Europa ben distante ai compromessi regressivi di Blair sarà accolta molto favorevolmente. Inoltre in America Latina c'è non solo una grande attenzione al modello sociale europeo (un modello senza precisi soggetti sociali di riferimento, che trova una sua identità nel rifiuto della guerra e nella ricerca di un contesto territoriale ancora non ben definito entro cui portare ad efficacia la sua azione futura nello spazio e nel tempo della globalizzazione), ma anche un'inquieta apprensione per il consenso che il centro-sinistra di Clinton-Blair-D'Alema aveva accordato alla politica del precedente governo di Cardoso. Una sinistra sociale in crescita è dunque una buona notizia per chi si batte per l'affrancamento dalla pressione vorace dell'Alca, mai contrastata dalle reticenze della burocrazia della Ue e delle sue impacciate istituzioni.

Meno ripresa invece dai commenti successivi allo svolgimento del Fse è la questione dei migranti, che risulta centrale nello svolgimento della riflessione e della conclusione fiorentina. Forse la sorpresa dentro la Fortezza da Basso dell'affluenza di 45.000 partecipanti in più rispetto alle previsioni ha contribuito ad attenuare l'impatto di una presenza molto vasta e qualificata, preparata da una 'carovana' itinerante e di un dibattito di importanza fondamentale e del tutto specifico nel contesto del vecchio continente.

In fondo è anche sul passato coloniale dell'Europa e sul crollo più recente del Muro di Berlino che si sono innestate le grandi ondate migratorie che varcano i suoi 'confini impensati'. Lo scontro per l'imposizione del modello economico occidentale riguarda le risorse almeno quanto le dinamiche demografiche transnazionali. Da questo punto di vista possiamo dire che i confini d'Europa si sono diversificati anche in dipendenza della mobilitazione o meno dell'opinione pubblica contro i migranti. Basti pensare ai diversi atteggiamenti delle popolazioni della Puglia rispetto a quelle del Veneto o della Lombardia. L'identità europea sarà definita anche dalla capacità di 'allargare' i suoi confini e di disporsi a contemplare la possibilità dei migranti di vivere a pieno diritto là dove la ricchezza viene consumata e non solo come produttori in casa propria.

Il concetto di 'flussi' legato esclusivamente alle necessità produttive dei paesi ricchi contrasta con la concezione universale dei diritti e con la valorizzazione della persona senza la mediazione dell'attività economica attraverso cui può essere resa produttiva. Perciò a Firenze la lotta alla Bossi-Fini si è caricata di una prospettiva paneuropea. Si può ben dire che i migranti sono portatori di un universalismo fondamentale. Se ci si riferisce alla futura 'Costituzione europea' come processo capace di includere programmaticamente i conflitti, non si può non tener conto della dimensione universalistica che traspare nei nuovi movimenti globali dal basso.

L'economia di domani

Per quanto riguarda la straordinaria partecipazione di Firenze rimane la domanda su chi fossero le migliaia di persone che nessuno si aspettava e che hanno cercato risposte, ascoltato e discusso. È possibile che il flusso di giovani e meno giovani sia stata una reazione al fallimento della politica di riforma degli Stati europei nazionali e all'indebolimento del ruolo democratico e di partecipazione dei partiti. Ma forse è più plausibile pensare che, a fronte della radicalità e della simmetrica mancanza di risposte disponibili, si sia diffusa la consapevolezza che il sistema di regolazione dei paesi industriali europei non funzioni più e che il bisogno di futuro parta da questa constatazione drammatica.

La crisi delle economie occidentali ha rafforzato nei governi (per esempio, in quello italiano) la mentalità industrialista/sviluppista, cioè la speranza di poter riavviare la macchina economica tramite una ripresa di crescita, con megaprogetti come il Ponte sullo Stretto, le bretelle autostradali, le dighe mobili nella Laguna. In Europa, solo il governo tedesco ha avviato in campagna elettorale una risposta più cauta. Per quanto riguarda il contributo che ciascuno di noi può dare, Bush ha parlato chiaro e Berlusconi gli ha fatto eco: consumare.

Il movimento si è dotato di una forte componente immaginativa, che sa dare di sé una narrazione e che resiste all'accelerazione che le reazioni istintive portano nella direzione sbagliata. Fortunatamente, il discorso e la prassi di un'economia a basso impatto ambientale ha messo radici in tutti i paesi industriali e in Europa in particolare. Qui le esperienze locali tedesche e del Nord Europa sono importantissime e qui conta la capacità di comunicazione, e di rendere attive le reti, innescata a Firenze. La minaccia dei cambiamenti climatici e la frequenza crescente di eventi meteorologici estremi hanno creato uno spazio fisico europeo che impegna risorse tecniche scientifiche e finanziarie già comuni ed è già condizionato da comportamenti interdipendenti. La riduzione della biodiversità, l'erosione del suolo e altri fenomeni di crisi dell'ambiente non sono più visti come aspetti lontani e mettono sempre più in discussione il vecchio paradigma delle risorse naturali come gratuite e illimitate.

Anche in Europa la base naturale non è più in grado di sostenere lo sviluppo: la politica agricola comunitaria, la politica della pesca dell'Unione, le sovvenzioni per le energie fossili sono il residuo di interessi ormai nocivi mentre cambia il quadro di solidarietà entro cui si può pensare la compatibilità dello sviluppo. E' stata data un'immagine del "futuro possibile" come se il confronto fosse tra due sfere distanti: quella del pensiero più realista, che fa parte del potere economico e che orienta la scienza convenzionale e che ha alle spalle la storia delle società industriali dove crescita e ricchezza sono considerate sinonimi e quella dell'ingenua utopia, che, nella marginalità del mondo accademico, si ritira nel cielo dei valori della superiorità morale e, convinta della distruttività del modello di sviluppo, pensa che il futuro le darà ragione. Il movimento che viene da Porto Alegre e da Firenze è in grado di accelerare processi di rimescolamento e revisione fin qui impensabili, dato che può rimettere in discussione nella società e per via politica rapporti di forza cristallizzati nella sfera economica. Se si guarda al di là del proprio naso, bisogna offrire un orizzonte creativo e non soltanto "riparatorio" alle nuove generazioni. D'altra parte, quale prospettiva si delinea per un giovane se i danni irreparabili di chi governa il pianeta lo vedranno all'opera soltanto per ripulire spiagge, ripristinare foreste, arginare fiumi, ricostruire abitazioni ed opere distrutte? Quando si parla di riconversione ecologica dell'economia la discussione intorno a 'neoliberismo' e 'liberismo' può trarre in inganno, dato che suggerisce che ci sono quelli che promuovono le regole e gli altri che ne vogliono fare a meno. Invece il tema è più che altro quali regole, dato che il mercato deregolato scatena forze distruttive che solo la politica e una nuova cultura che vi conquisti uno spazio rilevante può contenere, deviare, volgere ad altre destinazioni.

Nella fase attuale, le regole vengono definite sostanzialmente da organizzazioni internazionali non democratiche, come il Wto, la Bm, il Fmi, e il dibattito si rivolge unicamente alle condizioni di apertura dei mercati e non certo agli standard sociali, ambientali e di qualità della produzione e dei consumi. A fronte di questa restrizione dei soggetti protagonisti e delle procedure delle decisioni planetarie, grande è la prospettiva che il movimento di Porto Alegre può dischiudere mettendo a frutto le elaborazioni regionali in corso. Il tema dell'economia di domani, della sua sostenibilità ambientale e sociale è ormai vecchio d molti anni, ma non ha mai camminato su gambe e forze così coscienti e determinate. Basti pensare alla carenza di idee e di dibattito registrate a Johannesburg, dove ha prevalso una dimensione istituzionale burocratica e soffocante, e, comparativamente, alla creatività che ogni appuntamento del Forum riesce a stimolare. Nei seminari si è parlato di strumenti conoscitivi nuovi, di indicatori ambientali, di misure di flussi di materiale ed energia, di fiscalità trasferita dal lavoro all'uso delle risorse ambientali, di deprezzamento del capitale naturale, di Tobin Tax sulle transazioni sovranazionali. I temi sono stati affrontati come tasselli di un mosaico ancora da comporre, come singole campagne utilissime nella fase di accumulo di idee e di forze. Ora però è venuto il momento di formare un punto di vista complessivo in una chiave nuova.

Difficile dire se questa impresa spetti al movimento o a una politica rinnovata e che sappia riportarsi all'altezza della sfida imposta da un livello di partecipazione che non rifluisce e, anzi, si espande nelle forme della democrazia diretta, man mano che assume coscienza di sé e della concretezza delle sue utopie. In ogni caso l'occasione è davanti a noi e la rappresentanza di grandi episodi di trasformazione si può soltanto meritare sul campo.

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