Le 12 fatiche di Weber

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La scalata per lo scranno più alto dell’Unione europea è piena di insidie: lo sta scoprendo a suo discapito Manfred Weber, lo Spitzenkandidat del Partito popolare europeo, gruppo politico uscito “vincitore” dal voto dello scorso 26 maggio. 

Il procedimento con cui viene scelto il presidente della Commissione europea è definito dal Trattato di Lisbona, secondo il quale gli Stati membri – ovvero i capi di stato e di governo – designano un candidato alla presidenza “tenendo conto dei risultati delle elezioni europee”, che poi viene eletto dal Parlamento. 

Una formulazione volutamente vaga, a cui si è aggiunta nel 2014 la prassi del sistema degli Spitzenkandidaten, termine tedesco che sta per “candidati capolista” e che stabilisce che il partito che ottiene il maggior numero di voti può proporre il candidato per la carica di presidente della Commissione.

Il Partito popolare europeo (Ppe), raggruppamento variegato di cui fanno parte i cristiano-democratici di Angela Merkel, i repubblicani francesi, i popolari spagnoli ma anche Fidesz, la formazione del premier ungherese Orbán (a onor del vero, attualmente sospeso dal Ppe) e Forza Italia, è con 182 seggiil primo partito in Parlamento, seguito da socialisti (153), liberali (108) e verdi (75). 

Secondo la prassi dello Spitzenkandidat dovrebbe essere quindi Weber il legittimo erede di Jean-Claude Juncker, eletto anche lui con questo sistema nel 2014.“Dovrebbe”, perché, in realtà la sua legittimità e quella del sistema intero è stata messa in dubbio, ancora prima del voto, da una serie di leader europei, alla testa dei quali si è posto il presidente francese Emmanuel Macron.

Dopo aver sconvolto gli equilibri politici d’Oltralpe, Macron sembra infatti deciso a provocare un terremoto della stessa portata anche in Parlamento europeo, dove la sua lista “Renaissance” si è unita ai liberali, dando vita a “Renew Europe”, il terzo gruppo più numeroso dell’Eurocamera, in cui siede anche l’italiano Sandro Gozi (eletto in Francia con “Renaissance”). 

Il presidente francese non solo ha accusato Weber a più riprese di non avere esperienza governativa (il quarantaquattrenne tedesco ha costruito tutta la sua carriera in Parlamento europeo, dove siede dal 2004), ma ha soprattutto denunciato l’inconsistenza del sistema degli Spitzenkandidaten, sostenendo che i cittadini europei eleggeranno direttamente il presidente della Commissione europea solo quando questo sarà scritto nero su bianco in un trattato

Il vero problema di Weber è che ha contro anche parte del Parlamento europeo. Socialisti e liberali hanno dichiarato apertamente di non volerlo sostenere, rinnegando così il principio dello Spitzenkandidat, che il Parlamento precedente aveva invece sostenuto a gran voce, anche secondo una logica di equilibri istituzionali (con lo Spitzenkandidatè di fatto il Parlamento - e non gli stati membri - a definire il nome del presidente della Commissione). 

All’ultima riunione dei capi di stato e di governo, la scorsa settimana, anche Angela Merkel, principale sponsor di Weber, è sembrata mollare la presa, affermando che il principio dello Spitzenkandidat potrebbe ancora imporsi solo se i partiti che siedono in Parlamento arrivassero a trovare un accordo a riguardo, cosa molto improbabile. 

A non mollare è invece il Partito popolare europeo, pronto a fare ostruzionismo (il Parlamento elegge il presidente della Commissione a maggioranza assoluta - la metà dei deputati più uno – e senza i 182 voti del Ppe è praticamente impossibile raggiungere tale maggioranza), come si può intendere dalle parole del presidente del Ppe, Joseph Daul, che ha affermato: “Il presidente in carica è un popolare (Jean-Claude Juncker, ndr), possiamo prendere tempo”. 

E a non mollare è il diretto interessato, Manfred Weber, che in una serie di tweet ha invitato i colleghi socialisti e liberali a non mettere l’interesse di alcune capitali davanti alla necessità di un Parlamento forte, che sceglie il capo dell’esecutivo europeo. Weber insiste sul fatto che il sistema dello Spitzenkandidat, che dà di fatto ai cittadini europei la possibilità di eleggere direttamente il loro “capo del governo”, risponde, perlomeno in parte, a quell’esigenza di una maggiore trasparenza nel processo democratico europeo, tallone d’Achille su cui martellano gli euroscettici.

In effetti, la questione va ben al di là della sua nomina: affondare lo Spitzenkandidatvuol dire tornare ai tanto criticati accordi segreti nelle stanze dei bottoni, dove i capi di stato e di governo scelgono i loro rappresentanti, secondo una logica incentrata prettamente sull’interesse nazionale. Le poltrone da spartirsi non mancano: oltre alla presidenza della Commissione, vanno rinnovate quelle del Consiglio europeo, del Parlamento, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e soprattutto, la presidenza della Banca centrale europea). 

Non ci sarebbe da stupirsi se un tale approccio allontanasse di nuovo le simpatie della gente, dopo l’insperato picco nel tasso di partecipazione alle ultime elezioni (il più alto degli ultimi vent’anni) e il successo delle forze europeiste nella maggior parte degli stati membri.

Il 30 giugno i capi di stato e di governo si riuniranno di nuovo a Bruxelles. Il Ppe sacrificherà allora Weber, optando su un altro popolare? Ai popolari, i conigli da pescare dal cilindro non mancano. Il francese Michel Barnier, già due volte Commissario e capo negoziatore per la Brexit, è in pole position, forte dell’esperienza a cui sembra fare riferimento Macron. Sarà “già” fumata bianca?

È improbabile, ma se così non sarà, il rischio è il cortocircuito istituzionale. Il 1° luglio il Parlamento europeo si riunisce a Strasburgo per la prima sessione plenaria della legislatura. All’ordine del giorno c’è il voto del prossimo presidente del Parlamento europeo. Divisi sulla questione Weber, è difficile che i vari gruppi politici riescano, in poco tempo, a creare un’alleanza all’altezza delle sfide che gli attendono. Il rischio è che la montagna partorisca un topolino.  

Matteo Angeli 

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