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Lavoro, migrazione, poesia: la musica di Gianmaria Testa
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Un ferroviere prestato alla musica. L’anomala parabola di Gianmaria Testa parte dalla provincia di Cuneo e arriva fino all’Olympia di Parigi, regolarmente sold out a partire dalla sua prima apparizione del 1996. I suoi primi due album “Montgolfieres” (1995) ed “Extra-Muros” (1996) infatti sono stati pubblicati prima in Francia e realizzati da una produttrice e con musicisti francesi. La notorietà in Italia arriva solo nel 2000, dopo la pubblicazione del terzo disco “Lampo” (1999), testimoniata dal primo tutto esaurito al teatro Valle di Roma. Assai singolare che il valore di un cantautore come Gianmaria Testa fosse noto solo a pochi addetti ai lavori e a Fiorella Mannoia, che nel 1998 interpreta la sua “Un aeroplano a vela” inserendola nell’album “Belle speranze”.
Classe 1958, Testa ha avuto modo di lavorare prima come contadino, operaio e quindi da capostazione a Cuneo per parecchi anni prima di raggiungere il successo e potersi permettere di vivere di musica. Il mondo del lavoro lo conosce perciò assai da vicino e tante sue canzoni parlano proprio di questo, tante piccole storie di periferia come “La ca sla colin-a”, splendido gioiello in dialetto piemontese su un muratore che non ha mai potuto costruirsi una casa per sé e la sua famiglia. E proprio all’universo lavorativo e alla grande crisi che oggi ci attanaglia Gianmaria Testa ha dedicato il suo ultimo album “Vitamia” (2011). “Questo disco è nato da sette canzoni pensate per lo spettacolo teatrale “18mila giorni: il pitone” – rivela Testa – basato su un testo di Andrea Bajani sul tema del lavoro che mi vede in scena assieme all’attore Giuseppe Battiston. Il peso dello spettacolo grava sulle capaci spalle di Battiston mentre io sono solo una presenza silenziosa a cui ogni tanto Giuseppe si riferisce e che contrappunta i suoi monologhi con alcune canzoni”.
Tra le canzoni in questione spiccano in particolare “Lasciami andare” e “Cordiali saluti”, che altro non è che una lettera di licenziamento al “preziosissimo collaboratore” cui viene dato il benservito con parole altisonanti, retoriche ma soprattutto profondamente false. Oppure “Sottosopra”, cronaca dal tetto di una fabbrica da parte dell’operaio che lì si è rifugiato dopo esserne stato appena licenziato, e che sembra ricalcare le recenti cronache dell’Ilva di Taranto e di tante altre storie di ordinaria disoccupazione. Non mancano momenti ancora più toccanti come “Lele”, straziante storia ispirata dal suicidio di una donna del sud negli anni ’70. “Ho scritto questa canzone a 18 anni, dopo aver letto sulla “Gazzetta del Popolo” dell’anonimo suicidio di una donna del mio paese. All’epoca era consuetudine il matrimonio per procura tra donne del sud e operai piemontesi, che solitamente portava a queste donne vite infelici e solitarie. Ho cercato di cogliere questo sentimento di disperazione e abbandono e ho deciso di pubblicarla solo ora che le donne del sud rappresentano un esempio di lotta e riscatto sociale”.
Un’altra perla del disco è “20mila leghe (in fondo al mare)”, che mette alla berlina con estrema ironia e sagacia tutti i particolarismi e le istanze di autonomia e indipendenza dei nostri tempi. “Ho scritto questa canzone per spiegare a mio figlio più piccolo il significato di secessione. Molto probabilmente le canzoni non risolvono niente ma ritengo profondamente stupido pensare di poter risolvere qualsiasi situazione di potenziale conflitto attraverso un individualismo spinto. Sicuramente l’attuale scandalo delle regioni non ci ripara dai ladri, e leggendo certe notizie di cronaca verrebbe da scendere in piazza brandendo i forconi. Io mi auguro che l’Italia possa tornare uno stato dall’etica normale, nel rispetto delle radici di ognuno”. E lo dice un uomo che fino a vent’anni ha fatto il contadino e quindi conosce bene il valore della terra e dei sentimenti di umana solidarietà. “In vista del prossimo disco sto ragionando su questa nostra povera terra e sulla fine che gli stiamo facendo fare. Ho un fratello che ancora fa il contadino a Cuneo e penso proprio di tradurre questo pensiero in canzone”.
Anche al tema dell’emigrazione, con tutti i relativi annessi e connessi, Gianmaria Testa ha dedicato un intero album: lo splendido “Da questa parte del mare”, pubblicato nel 2006. “Sono partiti in due da un qualche porto del Nord Africa – si legge nelle note di copertina - clandestini nascosti nella stiva di un cargo…li hanno scaricati come zavorra dentro un gommone attraccato a duecento metri da una spiaggia di Puglia. Quando li hanno portati a Riva, per uno di loro non c’è stato più niente da fare. L’altro, dopo, ha raccontato. Erano i primi anni ’90. Non ho scritto per loro. Non ne sarei capace. Ho scritto per me e per quelli che, come me, stanno da questa parte del mare”. E la poesia in musica trasuda dalle note e i versi di “Seminatori di grano”, “Una barca scura”, “Tela di ragno”, “Ritals” e “Miniera”, cover di un brano del 1927. Una menzione a parte meritano “Il passo e l’incanto” e “3/4”, cronaca delicata e appassionata di un amore sbocciato tra due migranti incrociatisi in un centro di permanenza temporaneo.