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Laddove c’era l’immenso Lago Ciad, oggi ci sono fame e violenza
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C’era una volta il Lago Ciad. C’erano le sue acque da solcare con le barche da trasporto di merci e passeggeri. C’era un sistema economico e sociale organizzato attorno alla pastorizia, alla pesca e all’agricoltura che dall’acqua di quel lago traeva i mezzi di sostentamento.
C’è oggi fame, disperazione e violenza per un’area che conta più di 2,7 milioni di persone sfollate, in quella che a ragione è ritenuta una delle più gravi crisi umanitarie del continente africano. Passato da una superficie di ben 25.000 Km2 nel 1960 agli appena 1500 Km2 di oggi, con una profondità media di un metro e mezzo (e solo 7 metri nel punto più profondo), il grande specchio d’acqua ha di certo perso la posizione di settimo lago al mondo per superficie ed è destinato a scendere ulteriormente nella classifica a causa dello sfruttamento intensivo dell’acqua dei suoi affluenti, che ne hanno decretato il drastico inaridimento, unito al surriscaldamento globale e dunque alla crescente siccità ed evaporazione dell’acqua. In assenza di un intervento incisivo, il lago Ciad rischia di seccarsi del tutto nel giro di non molti anni, per questa ragione si sta predisponendo un intervento faraonico ideato oltre trent’anni fa dall’ingegnere italiano Marcello Vichi per trasferire dal bacino del fiume Congo a quello del lago Ciad circa 100 miliardi di metri cubi di acqua all’anno. Un investimento ingente di cui è stato chiesto il supporto finanziario ai Paesi sviluppati alla Conferenza COP21 dello scorso dicembre a Parigi, per scongiurare un ulteriore peggioramento di una crisi preannunciata da anni.
Il progetto ingegneristico si unirebbe al piano quinquennale di investimenti (2013-2017) di 900 milioni di euro adottato dalla Commissione del bacino del lago Ciad (CBLT), composta da Ciad, Camerun, Niger e Nigeria, i rappresentanti dei quattro Paesi bagnati dal lago, e da altri Stati africani: il 10% di questa somma è destinato agli interventi transfrontalieri gestiti direttamente dalla Cblt, il resto è amministrato dai Paesi membri e destinato alle zone limitrofe al lago. Gli interventi non si limitano a prendere provvedimenti adeguati sui livelli idrici e sulla qualità dell’acqua disponibile, ma intendono stimolare la produttività degli agricoltori, dei pescatori e degli allevatori del bacino, anche con il rafforzamento di processi di integrazione e collaborazione regionali, impegnando attivamente la popolazione nei processi decisionali e nella salvaguardia delle fonti di reddito. Dubbi tuttavia non possono che levarsi in relazione alla corretta gestione di questi fondi, laddove la Commissione, creata sin dal 1964, non è riuscita a mantenere il lago in salute ma ha acconsentito all’eccessivo sfruttamento delle risorse da parte dei Paesi rivieraschi, con ben il 75% delle acque deviato a monte, prassi responsabile dell’inaridimento e dunque del restringimento del lago Ciad. È stato proprio l’incontrollato sfruttamento operato dai governi locali a quella che sembrava una sterminata riserva idrica, attraverso la costruzione di canali non solo che attingono direttamente dal lago, ma anche dai suoi numerosi affluenti, congiuntamente all'incuria che contraddistingue i vasti tratti melmosi e paludosi che hanno lasciato le acque ritirandosi, a portare la situazione sull’orlo del collasso.
Le conseguenze sono comprensibili. Difficoltà per l’agricoltura, la pastorizia e la pescicultura locale hanno determinato fenomeni di migrazioni di massa, da tempo denunciati anche dalle organizzazioni umanitarie presenti sul territorio. Ai grandi movimenti transfrontalieri si sono aggiunti alti tassi di emigrazione e conflitti sociali che sono stati sintetizzati dal presidente del Niger Mahamadou Issofou con le parole “Non è un caso che Boko Haram abbia avuto origine nella regione del Lago Ciad”. La violenza di Boko Haram che insiste in quel territorio è stata armata anche dal progressivo impoverimento del territorio, causa dunque diretta di migrazione e di proliferazione del terrorismo. Il conflitto, inizialmente nato in Nigeria, si è esteso attraverso i confini di Camerun, Ciad e Niger, causando sofferenza e sfollamento di massa dinanzi ai molteplici attentati suicidi, agli attacchi e ai rapimenti che si verificano quasi ogni giorno. La forte tensione legata ai ripetuti attacchi e la risposta militare lanciata per frenare questa violenza ha conseguenze pesantissime sulla popolazione civile già vulnerabile. La rivitalizzazione del Lago Ciad favorirebbe allora la pace in una regione altamente instabile, eliminando una delle concause delle attuali grandi ondate migratorie; una considerazione che sembra aver sbloccato le perplessità ambientaliste sulle opere di approvvigionamento idrico del Lago Ciad e sui loro costi.
Da tempo gli osservatori internazionali hanno rilevato che le guerre di un futuro non così lontano saranno combattute per detenere il controllo dell’acqua. A maggior ragione in Africa, il continente demograficamente più giovane e popoloso, il controllo delle risorse idriche risulta un fattore geostrategico determinante, già al centro di controversie e profonde crisi diplomatiche.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.