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La retorica dell’innovazione
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Foto: Possessed Photography da Unsplash.com
C’è una ridondanza per nulla neutrale che accompagna sempre più il mito dell’intelligenza artificiale. Soltanto il pensiero critico può proteggerci dagli appetiti smisurati di potenza, di immortalità e di profitto nascosti dietro quella funesta ridondanza. «La retorica dell’innovazione vuole farci credere che le macchine “intelligenti” potrebbero, un giorno, colmare lo iato che le separa dagli organismi coscienti – scrivono Sara Gandini e Paolo Bartolini – Il mito delle macchine pensanti, intelligenti, curiose e creative si insinua per affermare che la creatività stessa può esercitarsi solo dentro la cornice data di riferimento: quella del funzionamento utilitaristico e dell’estrazione di plusvalore. Lo slancio utopico verso la giustizia sociale ed ecoclimatica evapora, si tratta di “lasciar fare” al sistema…»
Tralasciando momentaneamente le ricadute occupazionali, e l’intensificarsi del controllo sugli umani mediante algoritmi, la questione della cosiddetta “intelligenza” artificiale (e la sua ricezione massmediatica) esemplifica benissimo la componente de-politicizzante insita nel culto delle nuove tecnologie. Mentre il mondo va a rotoli, non passa giorno senza che si innalzi al cielo un’ode alle macchine di ultima generazione.
I tecnoentusiasti – nonostante qualche sfumata preoccupazione avanzata dagli inventori dei nuovi modelli di AI – annunciano sistemi artificiali che saranno sempre più capaci di autonomo apprendimento, gradualmente svincolati dagli input di programmazione degli umani, ecc. Insomma, si prova a minimizzare la sostanziale differenza tra artefatti e umani (assimilando sempre più la vita organica ai funzionamenti artificiali).
La retorica dell’innovazione a ogni costo vuole farci credere che le macchine “intelligenti” potrebbero, un giorno, colmare lo iato che le separa dagli organismi coscienti. Negli ambienti transumanisti da tempo è messa in discussione la differenza tra il vivente e l’artificiale, alimentando così la speranza in una vita “aumentata” (più duratura, performante, efficiente) secondo le attese della nostra era prestazionale. Tuttavia, ed eccoci al punto, a parlare così sono ancora e sempre determinati esseri umani. È abbastanza evidente che l’obiettivo di questa propaganda pro-AI sia quello di far accettare, con stupore e benevolenza, la rottamazione dell’umano in alcune aree strategiche della società: ricerca e sviluppo, produzione, “conoscenza” in senso lato. Una sostituzione operata da tecnologie raffinate e dotate di un’enorme potenza di calcolo. Là dove, sul piano sociale e politico, non sono concessi neppure scostamenti minimi dai diktat del capitalismo neoliberista, il mito delle macchine pensanti, intelligenti, curiose e creative si insinua per affermare che la creatività stessa può esercitarsi solo dentro la cornice data di riferimento: quella del funzionamento utilitaristico e dell’estrazione di plusvalore. Lo slancio utopico verso la giustizia sociale ed ecoclimatica evapora, si tratta di “lasciar fare” al sistema: saprà regolarsi prima o poi, e con l’intelligenza artificiale ci offrirà soluzioni per evitare la catastrofe.
Fantasie buone per rimandare di qualche anno una presa di responsabilità collettiva già notevolmente in ritardo rispetto alle urgenze del presente.
I solerti funzionari del tecno-capitalismo non considerano che le macchine non hanno un corpo, non sono impegnate in situazioni reali dove ne va del senso delle loro azioni, non si organizzano a partire da dinamiche vitali intensive e soprattutto non hanno incontrato come noi il fantasma della propria mortalità (il primo sapere che ci rende pienamente umani).
Sono affascinanti e non di rado utilissime – pensiamo alle tecnologie che aiutano i chirurghi a fare cose straordinarie, persino a distanza – ma che significato può avere magnificarne le doti assimilandole ai processi della vita organica e culturale?