La rabbia di Kinshasa

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Foto: Sara Cecchetti

di Sara Cecchetti da Kinshasa

Chiediamo di salire su un taxi: ci guardano, scuotono la testa e ripartono. È una scena che si è verifica più volte nei giorni trascorsi a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, che ci appare più ostile di come l’avevamo lasciata lo scorso anno. Le immagini di cosa sia successo le abbiamo viste tutti: tra ambasciate distrutte e manifestazioni nelle piazze, le scorse settimane sono state attraversate da un forte senso di rabbia. Del resto per i congolesi quello che sta accadendo è chiaro: “Non è solo una guerra, è un’invasione”. È il timore, derivante dal sentirsi invasi nel proprio territorio, che spiega l’atteggiamento di sfiducia nei confronti di chi, come noi europei, viene accusato di essere parte integrante del problema.

La nostra presenza è per molti disturbante: la nostra identità ricorda loro che a Est c’è un conflitto di cui, non solo non vogliono parlare, ma non possono neanche farlo. “Il governo ha creato una commissione per la guerra, chi non ne fa parte non ha il diritto di esporsi”, ci dice Francis Lusakueno, coordinatore dell’Agenzia per la prevenzione e la lotta alla corruzione (ALPC). Ad accoglierci nel suo ufficio- dopo averci fatto consegnare i cellulari- c’è anche Claude Bila Minlangu, deputato del governo Tshisekedi. Il deputato, che non può rispondere a domande dirette sulla guerra, esprime il proprio disappunto per il mancato sostegno al Paese: “Siamo costretti ad impugnare le armi perché, mentre nessuno ostacola il Ruanda, noi non possiamo permettergli di occupare le nostre terre”. Tutto vero. Ma se le colpe di questo conflitto sono da attribuire esclusivamente a Kikali e a una comunità internazionale più interessata a tutelare i propri interessi economici che a difendere i diritti umani, perché questa ostinazione del governo di Kinshasa a obbligare al silenzio?...

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