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La musica non è cosa da ambientalisti?
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Foto: Sai Kiran Anagani da Unsplash.com
La musica mette d’accordo tutti. È così che si dice, no? No?!?
In effetti, no. E non è questione di gusti e simpatie per un genere o per un altro, per un cantante o uno strumento o un gruppo in particolare. È questione di ambiente. E di tutela della biodiversità. E di cambiamento climatico. Ma davvero la musica c’entra con tutto questo? Sì, senza dubbio.
A partire dal luogo in cui si propongono i concerti. E non parliamo di quegli eventi a impatto relativamente contenuto, come le formazioni acustiche o i cori di montagna. Parliamo di concerti da migliaia di persone, con service audio/luci di tutto rispetto, palco e… tanto rumore. Che certo le nostre orecchie percepiscono come piacevole svago o ritmo travolgente, ma la fauna selvatica mica tanto.
Pensiamo per esempio alle polemiche per il concerto di Giorgio Moroder nel 2019 a San Martino di Castrozza. Valutazione ambientale negativa per l’allora Servizio Aree Protette e per il Parco di Paneveggio (sotto la cui tutela ricade l’area) a fronte della presenza nella zona di tetraonidi alpini (gallo forcello e gallo cedrone) in pericolo di estinzione e già messi a dura prova da una consistente presenza antropica e dalla frequentazione delle piste da sci. Eppure il concerto fu ugualmente autorizzato dalla Giunta provinciale… per la valenza economica che l’evento poteva rappresentare, soprattutto per la presenza turistica. Dello stesso anno le polemiche del Jova Beach Party, tour travolgente non solo per i fan ma anche per l’impatto – in particolare sonoro – sulle zone individuate per le esibizioni, spazi che rappresentano habitat di diverse specie animali e vegetali su cui la musica e la densità di persone presenti non hanno certo un impatto irrilevante. Gli esempi sono tanti, il più recente quello del contestato concerto di Vasco Rossi a Trento che, oltre a creare disagi non indifferenti a una città che punta a fare concorrenza alle grandi arene (dimenticando probabilmente l’importanza di saper valorizzare le proprie peculiarità anziché investire cifre da capogiro per diventare la brutta copia di altre realtà), dovrebbe inaugurare una “music arena” a ridosso di uno dei più importanti polmoni verdi della città, scrigno di biodiversità sempre troppo fragili, ma anche sede di realtà come il Centro di Recupero dell’Avifauna Selvatica (CRAS, in gestione a Lipu) o del più noto alle cronache Centro faunistico di Casteller.
La contrastata convivenza tra musica e ambiente non è però solo questione di eventi live, che d’altronde rappresentano le situazioni più impegnative sia per le risorse messe in campo che per le conseguenze generate. Anche la musica in streaming, a quanto pare, non è cosa da ambientalisti. Si tratta di un impatto minore, certo, ma non poi tanto. In particolare per quanto riguarda il cambiamento climatico. Lo rileva il rapporto di sostenibilità 2020 di Spotify, il più noto portale di ascolto di musica in streaming, che evidenzia come l’attività di ascolto stream produca ogni anno oltre 70 mila tonnellate di biossido di carbonio, il principale gas serra.
Due le principali responsabilità: una da imputare al fornitore di servizi (Spotify, Apple Music, Amazon, etc.), l’altra a… noi. Già, perché se anche fare il download di un brano consuma energia, quella stessa quantità di energia, che scaricando la canzone una tantum si esaurisce in un unico gesto e dal secondo ascolto in poi riduce dell’80% le emissioni di CO2, quando si effettua un ri-ascolto in streaming viene consumata ogni volta. Ogni volta che premiamo play vengono attivati server che lavorano con cloud e che richiedono energia elettrica, imponenti sistemi di raffreddamento, connessione internet, edifici, spazi. Per noi ascoltatori, d’altro canto, lo stream di un brano consuma il doppio della batteria rispetto all’ascolto della stessa traccia scaricata. Anche con esempi molto concreti, come quello recentemente riportato in un articolo su Rolling Stone, è evidente come scaricare un brano sia una scelta responsabile per dare il nostro piccolo contributo alla riduzione di gas serra – perché non siamo soli. Gli utenti iscritti alle piattaforme di streaming sono un’infinità e fino a che i provider non si orienteranno, per esempio, ad alimentare almeno i propri server con energie rinnovabili, il problema assume dimensioni inaspettatamente esorbitanti.
Quindi no, non dobbiamo vivere una vita senza musica per proteggere l’ambiente: la musica è emozione, tradizione, collettività, memoria, cultura, svago. Ne abbiamo bisogno. Ma può anche rappresentare per il Pianeta un pericolo (subdolo proprio perché necessario al nostro benessere e di fatto irrinunciabile). Sta dunque ancora una volta a noi, attraverso le nostre azioni come consumatori – questa volta del suono – provare ad aggiustare la direzione delle nostre scelte, almeno dove possiamo.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.