La difficile scommessa di Timor Est

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Murales rivoluzionari a Dili - Foto: E. Giordana

di Emanuele Giordana da Dili (Timor Est) 

“Siamo un piccolo Paese ma nel 2025 entreremo nell’Asean. Possiamo forse dare poco ma credo nell’importanza di essere dentro un contesto regionale attivo”. Xanana Gusmao, il “Che Guevara dell’Asia”, ci riceve in una saletta del Palazzo del Governo di Timor Est, un edifico bianco latte affacciato sul lungomare di Dili. Lo porta bene il peso degli anni questo signore che ne ha 78 e che ha sempre avuto una sua eleganza anche quando era in mimetica, la barba incolta, un sorriso empatico che ha conservato anche se ora ha un completo blu e una cravatta con un nodo perfetto. Gusmao non è stato solo uno dei protagonisti della Liberazione di Timor Est, con Ramos Horta, Mari Alkatiri, il vescovo Ximenes Belo. È  stato anche l’uomo di una svolta moderata quando ha lasciato il Fronte di liberazione Fretilin per fondare un suo partito. Che alle ultime elezioni lo ha potuto consacrare premier. È  stato combattente, mediatore, presidente, primo ministro. Protagonista della lotta all’Indonesia, Paese occupante, ma anche della lotta interna ai rivoluzionari che lo accusano di aver cambiato bandiera.

Pragmatico come sempre, ora deve far entrare il suo Paese nell’Associazione regionale del Sudest asiatico, un salto che farà di Timor Est l’11 Paese membro. Strada in salita. Su cui, prima di essere invitato al summit Asean di Giacarta del settembre scorso, ha lanciato una bomba che molti non gli hanno perdonato: “Nell’Asean non entriamo se non si risolve il dossier Myanmar”, dice Xanana nell’agosto 2023. Otto mesi fa. E adesso? “Fu un’affermazione in un momento che mi vedeva molto contrariato dall’espulsione dal Myanmar dei nostri diplomatici. Ne temevo gli effetti ma poi, nelle mie conversazioni con gli altri governi, ho percepito, e non solo coi Paesi Asean ma anche con Cina, Giappone o Stati Uniti, la stessa volontà di cambiamento: restituire la democrazia ai birmani”. Una guerra poco raccontata nascosta da altre sotto i riflettori. Ma, dice, senza le parole necessarie a spegnerle: “Quel che mi colpisce dei conflitti a Gaza o in Ucraina è il silenzio. E l’incapacità di chi potrebbe avere la leadership di impegnarsi veramente per il dialogo. Eppoi c’è questo senso di impotenza, perché noi siamo piccoli anche se sappiamo bene cosa significa la sofferenza della guerra. Se parliamo, chi ci sta a sentire? Chi potrebbe far sentire la sua voce invece, preferisce tacere e vendere armi. C’è bisogno di cambiare atteggiamento e ci vuole anche una riforma delle Nazioni Unite”.

È un tema che gli sta a cuore e di cui ha già parlato. Alla 69ma Assemblea generale Onu (2014) per esempio, aveva ricordato che le democrazie occidentali “che si dicono scioccate dalle violazioni dei diritti umani nei Paesi in via di sviluppo” sono le stesse che “hanno venduto armi sofisticate all’Indonesia”. Un Paese con cui Timor Est ha chiuso i conti e che adesso è il maggior sponsor di Dili per l’ingresso nell’Asean. Mentre ci lasciamo, un’ultima battuta: “La chiamavamo il Che dell’Asia. Cosa le resta dentro di quel mito? “Resta l’impegno che è la forza che ci fa andare avanti e imparare dagli errori. Col Fretilin commettemmo l’errore di essere chiusi, un partito marxista leninista maoista per cui se non eri con noi eri fuori. Ci siamo anche uccisi tra di noi. Poi negli anni Ottanta abbiamo capito che dovevamo aprire: sei per l’indipendenza? Allora siamo insieme. Prima, chi non era del Fretilin era semplicemente un nemico”...

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