LGBT. Gli scivoloni dei giornalisti, tra ignoranza, pigrizia e pregiudizi

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Se parlare di omosessualità sui giornali italiani non è certo più un tabù, permane il problema sul “come” se ne parla. Succede, infatti, che i giornalisti e gli operatori dei media spesso dimenticano di avere una grande responsabilità nel veicolare certi messaggi, col risultato che stereotipi e discriminazioni, anche involontarie, sono sempre dietro l'angolo. “Le parole sono come le uova, vanno trattate con cura” afferma il presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia Gabriele Dossena durante il ciclo di seminari di formazione sulla comunicazione dei temi Lgbt intitolata “L'orgoglio e i pregiudizi”, organizzato dall'Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), insieme al dipartimento delle Pari opportunità e all'agenzia Redattore sociale.

Incontri in cui si impara ad esempio che l'espressione “fare outing” tanto usata per indicare una persona che dichiara apertamente e per la prima volta la propria omosessualità, non è proprio quella giusta. “Come al solito usiamo l'inglese perchè non abbiamo trovato una parola equivalente in italiano, a parte gli insulti. Il problema è che lo usiamo male” spiega Claudio Rossi Marcelli, giornalista di Internazionale e curatore della rubrica “DearDaddy”. “Fare outing vuol dire infatti svelare qualcosa di segreto riguardo ad altri. L'espressione corretta sarebbe in realtà 'fare coming out'”. E che dire, poi, delle solite immagini stereotipate che accompagnano sempre gli articoli, anche seri, su tematiche LGBT? “Si tratta quasi sempre di foto tratte dai gay pride, che alimentano un'immagine folcloristica e ostentata delle persone gay o trans” spiega il giornalista, che nel suo solito stile brillante e intelligente elenca le principali parole chiave con cui si possono individuare i “vizietti” della stampa italiana: da “comunità gay”, che proprio come il fantomatico “popolo della rete” nella realtà non significa nulla, a “fidanzato”, per cui spesso le testate fanno a gara per trovare i giri di parole più complicati – “stretto collaboratore, amico intimo, eventuale compagno” – solo per non andare al punto; dall'utilizzo delle tanto stereotipate espressioni “famiglia gay” (quindi anche i figli lo sono?) e “famiglia tradizionale” (che non esiste, dato che anche la famiglia con genitori etero è in continua evoluzione), alle semplificazioni che portano a definire qualsiasi omosessuale famoso un' “icona gay”. E ancora, dalle parole omofobe come “gusti sessuali” o “scelte sessuali” (in realtà non si tratta né di gusti né di scelte) fino alla parola “lesbica”, usata con cautela perfino dalle lesbiche stesse, quasi fosse una parolaccia.

E poi c'è il tema della transessualità, tra i più delicati e sul quale, come spiega la scrittrice e giornalista Delia Vaccarello, “siamo di un'ignoranza abissale”. Il collegamento che viene fatto più spesso, infatti, è quello con la prostituzione, o le feste e le carnevalate, o ancora si pensa all'operazione per cambiare sesso come a una questione di chirurgia estetica. “In realtà – spiega la giornalista – si tratta di una questione di identità, che parla di come ognuno di noi interpreta il genere a cui appartiene”. E che rientra nella sfera della salute, con tanto di legge apposita, la 164 dell' '82, che la maggior parte dei giornalisti stessi non conosce. Inutile dire che, in materia di comunicazione, siamo ancora un disastro. “Ad esempio, se una persona passa o sta passando dal sesso maschile al femminile si dice e si scrive 'la' transgender, rispettando così la reale identità di genere di quella persona” spiegano gli addetti ai lavori.

Certo sembra un po' riduttivo insistere sulle parole, su cui tra l'altro si è lontani da un accordo universale, ma per gli organizzatori dei seminari è un modo per cominciare a cambiare certe cattive abitudini da parte di chi con le parole ci lavora. Insomma, aumentare la consapevolezza sul proprio ruolo e mestiere. Anche perché, se spesso regna l'ignoranza, ancora più spesso si tratta di pura e semplice pigrizia e conformismo, che finisce per spargere ulteriormente pregiudizi e discriminazioni. In realtà, quello che si vorrebbe promuovere è un diverso atteggiamento culturale nei media italiani. Basti pensare alla TV, in cui in genere si parla di tematiche LGBTQI (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer, Questioning, Intersex) quasi solo in contesti morbosi o di cronaca nera. Non solo: “In un anno di monitoraggio dei notiziari di Rai, Mediaset e La7, sono state date solo lo 0,2% di notizie riguardanti questi argomenti su oltre 10mila notizie complessive” afferma Valeria Ambrogi del Centro d’Ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva.

Se questi dati non lasciano molti margini di progresso, un diverso segnale arriva dal mondo delle fiction e serie televisive, dove sembra che sul tema si siano fatti più passi avanti rispetto all'informazione. “Vedendo in TV le persone gay all'interno di storie inserite nel contesto quotidiano, e quindi nella realtà della nostra società, si impara conoscerla meglio, e i pregiudizi scemano” spiega Elena Tebano, giornalista del Corriere della sera e coautrice del documentario sull'omofobia nella televisione italiana “Diversamente Etero”.

"Il linguaggio, la parola e le immagini hanno la potenza di cambiare la visione delle cose, di definire persone e sentimenti, e allora bisogna avere grandissima cura nel loro uso” commenta l'ex parlamentare Pd Anna Paola Concia, che si dice ottimista ma cauta: “Se in generale molto è già stato fatto nel mondo dei media e del giornalismo, tuttavia la strada da percorrere è ancora lunga”.

Anna Toro

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