L’uomo che cura le torture

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Ci pensi spesso? «Sì». Se potessi tornare indietro? «Non so se lo rifarei». Ne valeva la pena? Silenzio. Per chi si chiede se è proprio vero che li torturano, questi migranti. Per chi pensa che la loro sia una pacchia infinita. Per chi butta lì che va beh, alla fine sono loro che se la cercano. Per tutti varrebbe fermarsi un attimo. E guardare le mani di Mohammed D, un ghanese che oggi vive a Como: sfasciate, tagliate, rattrappite. Sono la sua carta d’identità. Dicono più dei suoi documenti, dei racconti, dei 24 anni che porta in faccia. «Vivevo nella zona occidentale del Ghana, una mamma già anziana, quattro fratelli. Non avevo nient’altro. Sono partito nel 2013 e dopo un mese sono entrato in Libia. Non sapevo che ne sarei uscito conciato così…». Un anno e mezzo a Sebha e a Tripoli, il degrado assoluto: «Io non ero un criminale. Però mi hanno messo dentro. E picchiato, tutti i giorni. Le guardie libiche mi prendevano a pietrate le mani. Con un coltello di quelli che si usano per sgozzare gli animali, mi hanno tagliato la destra. Per lasciarmi andare, volevano che la mia famiglia pagasse. Mi sono salvato solo perché sono fuggito. Ho preso un barcone. Sono arrivato in Italia. E ho trovato il Dottore…». 

Il Dottore non ha avuto bisogno di troppe parole, per capire il da farsi. Mohammed gli ha mostrato i segni. E Massimo Del Bene (nella foto del reporter di guerra Gabriele Micalizzi), primario chirurgo della mano all’ospedale San Gerardo di Monza, ha cominciato il lavoro di ricostruzione. Microinterventi complessi, una cura di anni, dita rifatte, la presa che piano piano ritorna: «È la chirurgia della tortura - spiega il medico -, traumi ripetuti che alla fine provocano invalidità. Una chirurgia ben diversa da quella legata agli incidenti. Io non la conoscevo: nei nostri ospedali, forse ne avevano ricordo solo i vecchi medici che avevano visto la Resistenza. In questi ultimi quattro anni, con l’arrivo dei migranti, mi sto facendo un’esperienza…». Si dice sempre: scappano dagli orrori dei lager libici. Volete sapere che orrori sono? Del Bene può descriverli: «In questo reparto, noi siamo l’oggettività. Non abbiamo appartenenza politica: solo nomi, facce, dati, cartelle cliniche da mostrare. Storie che ci parlano di torture primordiali. È il Medio Evo che torna nella nostra civiltà. L’aggressività fatta uomo. Difficile da guardare, anche per un medico». Le foto archiviate da Del Bene sono ributtanti, ferite vive sotto carni morte.

Una casistica angosciante: se li hanno ustionati col ferro incandescente, il problema sono le retrazioni cicatriziali; se hanno gettato l’acido, bisogna ricostruire dov’è tutto ulcerato; se hanno usato le scariche elettriche, le piaghe vanno in profondità; se li hanno picchiati coi tubi di gomma, i segni magari non si vedono, ma il dolore è continuo e insopportabile; se li hanno trattati con le lame, bisogna rifare i tendini; se hanno strappato le unghie, c’è da risolvere le infezioni o la necrosi; se hanno “solo” spento addosso le sigarette, in fondo poteva anche andar peggio. «Il punto è che noi interveniamo anni dopo la tortura. E ricostruire è più difficile. Quelli che vediamo tanto, sono i seviziati a martellate: hanno le dita sfondate una per una. È il modo più efficace per rovinare una persona. Se ti spacco le gambe, poi mi tocca accudirti. Se invece ti distruggo la mano, non ti tolgo l’autonomia, ma ti faccio fare lo stesso quel che voglio. Senza mani non guidi un camion, non scarichi una cassa, non servi a niente. Dipendi da me». Chi è stato torturato, rimane torturato. Il mondo resta carnefice per sempre, gli incubi sopravvivono e certe ferite si curano solo nella carne, non nella mente. 

A Monza non finiscono solo le vittime degli aguzzini libici: «Abbiamo rifatto la mano d’un ivoriano di 18 anni che aveva provato ad attraversare d’inverno il Fréjus. Aveva perso tutt’e dieci le dita, congelate per salvare un amico nella neve. Ci capitano anche sudamericani, nigeriani o moldavi finiti in qualche vendetta, palestinesi colpiti a Gaza dai soldati israeliani…». In comune, tutti hanno l’omertà: «Raramente si aprono con noi. Faticano a raccontare. E se lo fanno, ci vogliono mesi. Ma i segni che hanno addosso, spiegano molto». Fare Del Bene, scritto con le maiuscole e in tutti i sensi, è un lavoro complicato: «Molti medici, infermieri si offrono volontari. Vorrebbero andare a operare direttamente sui luoghi di queste tragedie. Ma è sempre difficile: servono ferie, aspettative… Il mio progetto allora è aprire qui, a Monza, un ospedale per curare tutti i bambini vittime di guerra. A costo quasi zero. Basato sull’offerta di chi ci sta». Un’urgenza: «Una volta sono andato a vedere il castello dei Templari a Bodrum, in Turchia. In fondo alla scalinata, si entra nell’antica stanza delle torture. Ho pensato che non è cambiato niente…». Perché? «Ho visto un cartello con una scritta: qui Dio non c’è».

Francesco Battistini da Corriere.it

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