L’illusione capitalista di Martin Wolf

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Negli ultimi quindici anni l’economia globale è stata parecchio sull’ottovolante. Dalla crisi finanziaria a quella del debito, dal Covid-19 al ritorno della geopolitica e della guerra. Un concentrato di tempi complicati. Alcune di queste crisi sono attualmente alle spalle, il crollo dell’economia e del mercato non c’è stato. I sostenitori degli attuali meccanismi economici dominanti reagiscono allo scampato pericolo con un duplice atteggiamento. C’è chi si trastulla con i decimali di crescita e arriva persino a ipotizzare un modello mediterraneo che supererebbe quello centro-europeo, finendo per inneggiare ai Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), a fronte di risultati peggiori di Francia, Germania e del suo blocco di riferimento. Ma parliamo sempre di una crescita dello zerovirgola. C’è invece chi non dimentica le disavventure di questi anni, non si consola con le disgrazie altrui e ritiene necessaria una grande riforma del capitalismo. Un pensiero, indubbiamente, più accattivante intellettualmente, oltre che politicamente. Il 1989 ci aveva consegnato quella che Francis Fukuyama aveva definito «una vittoria incontrastata del liberalismo politico ed economico»: chi ha creduto in tale occasione, persino con una certa euforia, non può non porsi domande di ordine generale, a cui far seguito con risposte persino radicali se messe in relazione al diffuso conformismo omologante.

Un recente esempio viene dall’autorevole giornalista economico britannico, editorialista del Financial Times, anzi il «più grande giornalista economico» secondo il Washington Post, Martin Wolf (La crisi del capitalismo democratico, Einaudi, 2024). Il testo è una poderosa opera di oltre 500 pagine, che affronta il tema in maniera articolata, non banale, con dovizia di dettagli e approfondimenti, con numerosi spunti interessanti. Un testo che finisce per sfumare i confini di status tra economista e giornalista economico. Wolf prende le mosse dalla crisi del mercato che mette in relazione a quella del sistema democratico. Cioè proprio le due componenti che, nella loro complementarità, sono uscite vincitrici nella sfida con il socialismo reale. Le cause della crisi, sostiene, sono principalmente dovute alla modesta crescita economica registrata nel nuovo secolo. Afferma, infatti, che «il fallimento dell’economia non è la sola causa del crollo della fiducia. Ma è uno dei motivi principali della perdita di legittimità della democrazia liberale che si estende ai paesi a reddito alto di lunga durata». 

Il «fallimento dell’economia»

Wolf affronta i problemi con schiettezza, senza indorare la pillola. Se da un lato riconosce che il ciclo affermatosi negli ultimi due secoli di miglioramento costante delle condizioni di vita di centinaia di milioni di individui è il risultato storicamente ineguagliato del capitalismo, con altrettanta nettezza vede nel rallentamento, per non dire interruzione, di tale parabola il principale limite del contesto attuale. Recentemente, in un’ottica prettamente keynesiana, Pierluigi Ciocca riconosce anch’egli al capitalismo il pregio della crescita economica intesa potenzialmente come motore di uno sviluppo diffuso (Del capitalismo. Un pregio e tre difetti, Donzelli, 2023). Quel che va registrato è che tale meccanismo si è inceppato. Da qui derivano innumerevoli problemi destabilizzanti. Wolf compie una profonda disamina di quest’ultimi. Dalla mancata crescita economica alle diseguaglianze dilaganti, dalla finanziarizzazione e primato della rendita all’eccesso di indebitamento pubblico e privato, dagli squilibri globali al ritorno della geopolitica. Ritirata dello Stato e del welfare, cattiva governance dell’impresa, calo della produttività, deindustrializzazione, monopoli sempre più grandi, corruzione. Aggiunge persino l’inquinamento e la scomparsa della biodiversità. Questa dinamica da fine dell’impero porta con sé la crisi della democrazia, il populismo, il rischio di plutocrazia e autoritarismo. Con il rischio di condurre alla «rovina dell’economia»...

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