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Italia: sull'Afghanistan urge un dibattito serio in Parlamento ma anche in Rai
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"Cordoglio e dolore" vengono espressi da parte di numerose associazioni della società civile per le vittime dell'attentato kamikaze di ieri a Kabul che ha coinvolto due blindati del contingente italiano causando sei morti e quattro feriti tra i parà della Folgore e 15 morti e 60 feriti tra i civili afgani.
La Sezione Italiana di Amnesty International "condanna l'attentato" compiuto questa mattina a Kabul in Afghanistan che ha causato la morte di sei militari italiani e il ferimento di altri quattro, almeno 15 morti e oltre 60 feriti fra i civili afgani ed "esprime le proprie condoglianze alle famiglie delle vittime" - riporta una nota dell'associazione.
Le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli) esprimono il loro "profondo cordoglio per le vittime del terribile attentato che a Kabul ha causato vittime tra i militari italiani e i civili afgani". "Tocchiamo oggi tragicamente con mano - ha detto il presidente delle Acli Andrea Olivero - quanto alto sia il costo dell'impegno per la pace, appena poche settimane dopo aver festeggiato con le elezioni presidenziali un nuovo inizio per la democrazia afgana". "In queste ore di dolore - ha aggiunto Olivero - dobbiamo chiedere e pretendere che la morte di questi soldati non sia vana. E' compito e responsabilità della politica sostenere il faticoso cammino del popolo afgano verso la democrazia. Europa e Occidente si facciano garanti perché su questa strada non si torni indietro, perché l'attesa nuova stagione di pace e di democrazia per l'Afghanistan non resti una promessa mancata".
L'ong Intersos in un comunicato esprime "condoglianza e vicinanza a tutte le famiglie delle persone colpite ed in particolare alle famiglie dei giovani militari italiani uccisi e di quelli rimasti feriti". "E’ un momento di dolore e di unione, oltre che di meditazione, per tutti noi". L'ong che è presente in Afghanistan sottolinea che "questa volta sono stati colpiti molti civili afgani insieme ai militari italiani. Il dolore che sempre sentiamo vivo di fronte alla sofferenza e alla morte, nei tanti contesti di conflitto in cui interveniamo, questa volta penetra nelle nostre menti e ci pone un’infinità di domande a cui non riusciamo a rispondere. Molto abbiamo detto e scritto sull’Afghanistan. Ora sentiamo il bisogno di stare in silenzio".
L'Arci è vicina all'immenso dolore e "stringe in un abbraccio commosso le famiglie, gli amici, i colleghi, le comunità di origine dei militari italiani uccisi in Afghanistan". Ma - nota l'associazione - "in tutto l'Afghanistan si muore e si soffre da troppo tempo". "Di fronte a questo nuovo lutto chiediamo ancora una volta al Governo italiano di guardare in faccia la realtà e di dire, finalmente, la verità. Perché stiamo in Afghanistan? Cosa stiamo facendo lì?".
"La presenza militare italiana continua ad essere giustificata, dal Governo Italiano e da troppe forze politiche, come una missione tesa alla difesa dei civili e al rafforzamento della democrazia. Peccato che gli obiettivi di una missione di pace non siano conciliabili con la guerra aperta contro i talebani condotta dalle truppe occidentali più numerose e attive". "Quando l'Italia avrà il coraggio di fare chiarezza?" - domanda l'Arci. "Soluzioni semplici non ce ne sono: servirebbe un congiunto di iniziativa politica, diplomatica, economica, culturale, e di polizia internazionale che dovrebbe fare tabula rasa di quasi tutto ciò che si è fatto finora, ammettere gli errori, cambiare radicalmente strada".
Anche la Tavola della pace sostiene che è giunto il tempo di cambiare strada. "Mi unisco al dolore dei familiari dei soldati italiani e di tutti i civili innocenti uccisi oggi a Kabul" - scrive Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace. Ma - aggiunge Lotti - "sento che le espressioni di cordoglio, di solidarietà e di vicinanza non bastano più". "Il dolore che oggi unisce tanti italiani ci deve spingere a fare qualcosa per fermare e non per continuare a combattere questa guerra". "La società civile italiana e la Tavola della pace hanno avanzato da tempo precise proposte sia ai responsabili della politica che al mondo dell’informazione. Ma il silenzio è assordante" - nota Lotti.
"E’ tempo che anche in Italia, come accade negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, si discuta in modo chiaro e aperto su quello che l’Italia e gli altri paesi della coalizione stanno facendo in Afghanistan. E’ tempo che si faccia un bilancio serio e rigoroso degli otto anni di guerra che ci stanno alle spalle e del disastro che hanno provocato". "E’ tempo che si discuta cosa l’Italia deve fare per aiutare gli afgani ad uscire da questa trappola mortale. Lo deve fare immediatamente il Parlamento. Lo deve fare la politica, Ma lo deve fare anche l’informazione e la Rai, servizio pubblico, che non ha mai organizzato un solo serio dibattito per aiutare gli italiani a capire cosa è accaduto, cosa sta succedendo e come si può fare per evitare di continuare a piangere inutilmente".
Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, esprime a nome dell'associazione "dolore per questo ennesimo episodio che conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'estrema pericolosità della missione all'estero". Marescotti evidenzia quindi che "siamo in guerra nonostante la Costituzione italiana la ripudi". "E' del tutto evidente che l'Italia è impegnata in una missione che larga parte della popolazione civile afghana avverte come ostile e che miete vittime proprio fra coloro che dichiara di voler 'proteggere'. Quindi richiamando le dichiarazioni del ministro degli Esteri, Franco Frattini, ricorda che "i padri della nostra Costituzione mai avrebbero immaginato che sarebbero stati inviati soldati italiani a farsi ammazzare in una missione di guerra".
Ieri la Federazione nazionale della stampa (FNSI) ha deciso di rinviare al 3 ottobre la manifestazione in difesa della libertà di stampa in programma sabato prossimo. "Con profondo rispetto verso i caduti, nell’espressione di un’autentica, permanente volontà di pace quale condizione indispensabile di una informazione libera e plurale capace di rappresentare degnamente i valori della convivenza civile, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, ha deciso, d’intesa con le altre organizzazioni aderenti (Cgil, Acli, Arci, Art. 21, Libertà è Giustizia e numerose associazioni sindacali, sociali e culturali), di rinviare ad altra data la manifestazione per la libertà di stampa programmata a Roma per sabato prossimo" - riporta il comunicato.
Mao Valpiana del Movimento Nonviolento, con una nota critica la decisione della FNSI. "La manifestazione, a nostro parere, andava fatta ugualmente, per chiedere a gran voce anche la 'libertà di informazione' sulla guerra in Afghanistan". "Ancora morti in Afghanistan... e continuano a chiamarla "missione di pace", anzichè con il suo vero nome: Guerra! Basta morti, afghani civili o militari italiani che siano. L'unico vero modo per esprimere il lutto, è quello di ripudiare questa guerra, come dice l'articolo 11 della nostra Costituzione".
E Marco Garatti, coordinatore medico del Centro chirurgico di Emergency a Kabul denuncia che "all'ospedale entrano i giudici per interrogare e non i sanitari per i feriti". "Ai rappresentanti dello stesso Ministero della Sanità afgano è stato impedito oggi di entrare nell'Ospedale militare di Kabul e, quindi, solo il ministero della Difesa ha potuto render conto del numero delle vittime civili" - riporta il chirurgo. "Dopo il tragico attentato di oggi, oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili. Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, lo si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio".
"Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito ma quanto sei utile alle indagini" - afferma il chirurgo. "Il Centro chirurgico di Emergency a Kabul riceve quotidianamente decine di feriti che vengono da tutte le province vicine, ma quando una bomba esplode a 500 metri dall'ospedale, ai pazienti viene reso impossibile esercitare il proprio diritto ad essere curati per motivi che chi fa attività sanitaria, come me, trova difficile comprendere" - conclude Garatti. [GB]