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Islam e l'Europa: la sfida dell'incontro di civiltà
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Cerchiamo di vagliare i nodi principali, sui quali sia i musulmani sia i non-musulmani europei dibattono o saranno obbligati a farlo, se vogliono giungere a una coabitazione. È certo che questo confronto dovrà svolgersi nella reciprocità, perché se è vero che i non-musulmani hanno delle domande da porre ai musulmani, è vero anche il contrario. i musulmani oggi difficilmente accettano d'inserirsi in alcune logiche di assimilazione pura e semplice. è questa la differenza con le altre migrazioni. Queste ultime erano portatrici di culture tradizionali, spesse vinte dalla modernità. per i musulmani la loro cultura ha un riferimento religioso, che si pone come interlocutore dell'occidente. Questa è almeno una parte della visione contemporanea dell'islam.
I l dibattito è così incominciato e procede a tentoni e spesso più per aggiustamenti pratici che per un'azione riflettuta. È utile analizzare qualche nodo di questo dibattito, per intravedere le sue alternative. L'Occidente - soprattutto quello europeo - ha intrapreso da almeno 50 anni un cammino verso l'occultazione degli dei. I sociologi della religione hanno parlato della "secolarizzazione" delle società e di "eclisse del sacro". I cristianesimi stessi avevano messo una sordina, contenti di un relativo statu quo . Ora una religione, l'islam, si affaccia con orgoglio e movimenti di conquista. Una parte del mondo europeo per il quale il progresso sociale e l'emancipazione non si potevano fare se non nell'agnosticismo, scopre con inquietudine questo ritorno del religioso. E l'opinione europea osserva con meraviglia le dinamiche religiose della potenza dominante, gli Stati Uniti, largamente sposate dal suo presidente George W. Bush. Assistiamo forse a ciò che Gilles Kepel ha chiamato la "rivincita di Dio"?
È certo che l'ipotesi dell'occultazione del religioso, o la sua sparizione, dev'essere rivista. E l'islam è certamente stata la punta di lancia maggiore di questa revisione.
L'ISLAM, UNA RELIGIONE. MA QUALE RELIGIONE?
La questione è di sapere che cosa s'intende per religione e come si pensano i suoi rapporti con il sociale. Il patto della modernità, almeno in Europa, consiste nel mettere la religione nella sfera dell'intimità delle coscienze e della vita privata. Innanzitutto, questo patto accetta, nel nome della libertà, il religioso come "culto" inteso come espressione ritualizzata di se stessi. Si accetta anche che faccia da supporto a manifestazioni culturali popolari. Nello scambio di questi accordi, il religioso accetta di moderare le sue esigenze, di tollerare la coabitazione con altre forme religiose in una società pluralista. Di qui lo sforzo di certi musulmani di "modernizzare l'islam", nel senso di ricondurlo a un culto. E quindi dimostrare, per dirla alla francese, che non c'è incompatibilità tra l'islam e la Repubblica, o, come scrive un leader religioso di Marsiglia, tra l'islam e Marianna.
Emergono così due nuove concezioni del religioso. Una è quella "postmoderna". Considera le religioni come equivalenti tra di loro e con diverse espressioni culturali. La religione è considerata legittima poiché un'espressione di sé, della soggettività. Questa equivalenza permette di andare dall'islam al buddismo, dai pentecostali alle filosofie Zen passando per la New Age. Alcuni sociologi hanno parlato di religioni da supermercato.
Vari non-musulmani guardano all'islam alla maniera postmoderna. Lo considerano come un'espressione culturale "banale". È stato il grande malinteso all'inizio degli anni '80 nei Paesi Bassi. Gli olandesi pensavano di essere in presenza di una "cultura", certamente un po' esotica, ma che con un po' di volontà multiculturale e soprattutto nel crogiolo sanamente materialista di questo Paese si sarebbe meticciata. Alla fine degli anni '90 scoprono che si trattava di un'altra cosa. Di qui la loro sorpresa e il rovesciamento degli atteggiamenti: le politiche multiculturali aperte si rinchiudono, le attitudini ingenuamente positive lasciano spazio alla perplessità e all'ostilità.
Tra i musulmani si incontrano delle visioni "postmoderne" del religioso: un "islam di luci", un "umanesimo islamico" o una cultura musulmana caratterizzata dalle sue espressioni artistiche o letterarie. Queste visioni sono accolte con interesse da alcuni non-musulmani che sperano di trovare un antidoto alla reviviscenza islamica. È possibile tuttavia che siano anche segno che, nel mondo dell'islam, non è diventato legittimo esprimersi nel nome di un agnosticismo dichiarato. Queste visioni secolarizzate sull'islam non hanno oggi un grande ascolto nel mondo musulmano. In certi casi si tratta di un tradizionalismo che prevede un ritorno alla società sacrale e al modello profetico del legame tra religione, società e governo. Queste posizioni sono state chiamate in Occidente "integriste". Nella tradizione musulmana sono qualificate come "salafiste" (da salaf , vecchio), a significare il ritorno alle sorgenti dell'islam. Si possono anche qualificare come wahabite , per designare la loro ispirazione emersa dal pensatore della fine del XVIII secolo, Ibn Wahab, che intendeva restaurare l'islam per sopperire alle derive percepite nell'Impero ottomano. Nel dibattito, queste posizioni dicono che non è questione di "modernizzare l'islam", o di prevedere "un islam postmoderno", ma piuttosto di "islamizzare la modernità".
In altri casi, il rifiuto di respingere il religioso non mira a restaurare un ordine antico. Per certi musulmani si tratta di interrogare sia le fonti dell'islam sia le radici della modernità europea per vedere poi quali rapporti stabilire. Un personaggio come Tariq Ramadam, fra gli altri, si situa nel movimento cosiddetto "neo moderno". La loro non è una posizione facile perché vengono accusati dagli occidentali di non essere abbastanza moderni e dai musulmani salafisti d'essere pronti a mescolare l'islam nella modernità.
ESTREMISMO RELIGIOSO: DEVIAZIONE O SOSTANZA?
Da trent'anni, la visione dell'islam "salafista-wahabita" ha costruito l'agenda pratica tanto del divenire dell'islam, quanto delle relazioni tra gli islam e gli Occidenti. Tale visione ha generato delle prospettive radicali di gruppi che compiono azioni terroristiche. Nel linguaggio musulmano, questi gruppi vengono qualificati come jihadisti, fautori di una lettura combattente della jiahd , anche se con una dimensione spirituale. Essi sono cioè arrivati alla conclusione che l'unica via d'uscita possibile per un musulmano è quella di intraprendere un combattimento, vero atto di guerra, contro i nemici di Dio.
I non-musulmani interpellano i musulmani europei a questo proposito con una certa inquietudine. Alcuni ritengono che questa non sia per niente una deriva, ma che sia iscritta nelle fonti stesse della rivelazione islamica. Autori come Oriana Fallaci o Anne-Marie Delcambre condividono questa prospettiva.
Altri tentano di convincere i musulmani a neutralizzare queste deviazioni, nel nome di un islam che potrebbe far nascere un'altra cosa. Comunque sia, gli uni e gli altri chiedono ai musulmani "moderati" di pronunciarsi. Ma questi hanno difficoltà a prendere la parola. Se condannano gli atti di violenza (come gli attentati dell'11 settembre 2001), fanno fatica a condannarne in modo assoluto gli autori che agiscono nel nome dell'islam. Se accettano di ragionare in termini di deviazione, rifiutano di ragionare in termini di estremismo, che condannerebbe l'islam nel suo insieme. E anche di fronte a queste deviazioni, preferiscono non arrivare alla rottura, ma tentano di promuovere il dibattito interno. Cosa che i non-musulmani considerano come inaccettabile: non si discute con i radicali, per di più assassini. Queste posizioni divergenti differiscono ugualmente nel contesto intellettuale in cui s'iscrivono. I non-musulmani fanno riferimento ai diritti umani, ai diritti della persona, al diritto della guerra che hanno elaborato. I musulmani fanno anche riferimento alla dominazione dell'Occidente, alla colonizzazione, al neocolonialismo, all'"occidentalismo del mondo", per riprendere l'espressione di un sociologo iraniano (A. Naqavi). Sono tutte delle forme di repressione dei musulmani che si sono manifestate in posti concreti: Palestina, Bosnia, Cecenia.
IL LOCALE E IL GLOBALE
Tutti questi dibattiti intra-europei hanno debordato, poiché l'islam si presenta oggi più che mai come un riferimento universale. Ha dato vita a istituzioni transnazionali (come la Lega islamica mondiale). Sul piano delle idee, un discorso islamico che cerca un compromesso con l'Occidente e una via d'inserzione nelle spazio europeo, è messo in questione da alcune riflessioni negative circa il valore dell'idea europea di democrazia. E questo in consonanza con l'appello generale alla jihad, che costituisce uno dei punti di forza dell'islamismo contemporaneo. Questa connessione dell'islam europeo alle dinamiche dell'islam mondiale complica il quadro. È chiaro che, a partire dalla rivoluzione islamica fino agli atti terroristi recenti, le iniziative per costruire un islam europeo sono state scosse da eventi che si situanofuori dall'Europa, o da legami che si stabiliscono tra musulmani europei e il resto del mondo. Le realtà locali sono d'ora in poi connesse al di là del locale, e vengono inglobate nei processi mondiali. Pensare a un islam europeo, isolato da questi processi, è un'illusione.
UN INCONTRO DI CIVILT
Si è parlato finora di culture, etnie, religione. Ma la presenza dell'islam in Europa e le relazioni contemporanee tra l'Occidente e i mondi musulmani devono anche essere pensati in termini di "civiltà"; questo termine è un po' sospetto perché è stato utilizzato per giustificare la colonizzazione e la supremazia dell'Occidente. Tuttavia, è utile perché permette di vagliare le permanenze storiche e su grandi spazi di modi di organizzazione sociale, di visioni del mondo, di culture quotidiane, di espressioni artistiche. Si può parlare di una "civiltà europea" e anche di una "civiltà musulmana".
Il modo dell'islam non conosce solo un salto religioso ma anche un salto di civiltà, dopo il periodo di decadenza e di dominio coloniale . L'Occidente, d'altra parte, continua a pensare alla sua civiltà come universale. È confortato in questo dal suo successo economico e tecnologico che domina e si propaga su scala mondiale. Questa dimensione di civiltà nell'incontro tra Occidente e islam non può essere ignorata. Perché se si parla di civiltà in termine di permanenze, non si può parlarne solo al passato. Queste permanenze danno delle prospettive e alimentano delle utopie. Gli incontri di civiltà antiche si sono fatti sotto la modalità della conquista o per processi capillari di diffusione.
Oggi le migrazioni e i processi di mondializzazione portano agli incontri di civiltà di massa e obbligano a pensare a maniere nuove per realizzarle. Quest'incontro non potrà accontentarsi di un vago discorso sul multiculturale o sull'interculturale. Bisognerà piuttosto costruire una vera relazione di inclusione, che cerchi delle basi solide e comuni di coabitazione, affermando le diverse specificità.
FELICE DASSETTO
IL VELO: UN CASO EMBLEMATICO
La "questione del velo" riassume bene i termini del dibattito in corso. Le donne che rivendicano il diritto di portare il velo lo fanno spesso nel nome della loro identità, dell'espressione di sé. È presente nei diritti individuali, nelle strategie identitarie personali, corredate di una visione postmoderna del religioso. Ed è in nome di questi diritti e di questa visione che insorgono i difensori del velo, anche non-musulmani. Così facendo, mettono tra parentesi le ragioni che fanno da fondamento al patto stabilito tra il religioso e la modernità: cioè l'idea di una certa "moderazione" di espressioni identitarie, al fine di garantire una pacificazione sociale. Queste ragioni appaiono subalterne di fronte all'esigenza di permettere l'espressione libera delle identità individuali.
Il fatto è che il portare il velo non è che un'espressione insignificante in sé. Si tratta di un obbligo religio so o, più esattamente, di una sua certa lettura.
Queste posizioni del "diritto al velo" sono accompagnate da un argomento, presente nei Paesi dove il "culto" è riconosciuto dallo Stato (Spagna, Belgio, Austria) che consiste nel dire che, poiché l'islam è riconosciuto, è allora normale che si riconoscano anche tutti i diritti significativi di questa religione. Ecco il problema della divergenza di concezione tra il riconoscimento di un culto, quella di una religione nella sfera privata o quella di una religione nella sfera pubblica.
Questo velo dunque, espressione dell'identità personale, è inglobato in un dibattito molto più grande intorno allo statuto del religioso nello spazio pubblico contemporaneo, quindi nello spazio dello Stato. Ma in più è messo in questione anche dai non-musulmani, in quanto espressione di un certo tipo di islam, radicalizzato, che ha inventato un modello di velo - il "velo islamico" - molto diverso da quelli tradizionali delle montagne e delle campagne del Marocco.
Di colpo, questo velo non è solo l'espressione di un'identità personale, ma un emblema dell'islamizzazione delle società: emblema positivo per gli uni, inquietante per gli altri.
E fra questi ultimi si incontra la lettura femminista occidentale che lo interpreta come una prova della stigmatizzazione della donna in termini di marginalizzazione sociale. Contro questa tesi, insorgono le musulmane. Tendono a mostrare che questo rispetto della volontà divina non è segno di sottomissione agli uomini, ma a Dio. E questo velo permette uno spazio di libertà ottenuto grazie all'islam, all'incontro del dominio fatto dai padri, fratelli o cugini, nel nome del patriarcato tradizionale. La strategia identitaria si appoggia qui sulla religione, contro la cultura e la tradizione. L'islam e il velo, in questa argomentazione, appaiono come segni di modernità. Queste stesse musulmane interpellano allora le donne occidentali. Chiedono qualche spiegazione a proposito della liberazione della donna che, accanto a grandi conquiste, ha dei punti oscuri, come la crescita dei compiti femminili nel lavoro e in casa, la persistenza della donna come oggetto nella pubblicità.
È tra questi argomenti diversi che da una ventina di anni si svolge il dibattito sul velo. Più che un dibattito, in realtà è una controversia dove si allineano gli argomenti spesso semplicistici di coloro che sono "a favore" e di quelli che sono "contro".
Di fronte a tutti questi elementi si misura l'ampiezza e l'urgenza di mettere in opera un'azione istituzionale forte destinata a costruire una nuova relazione tra l'Occidente e l'islam. È vano pensare che tale incontro si realizzi necessariamente in maniera positiva. Spesso è il contrario. Diventa positivo, solo se gli attori presenti la costruiscono come tale.
FELICE DASSETTO
TARIQ RAMADAN
Tariq Ramadan (38 anni), in Europa, è il principale ricercatore e filosofo musulmano tra gli immigrati della seconda e terza generazione. Suo nonno Hassan al-Banna fu il fondatore dei Fratelli Musulmani, un movimento nato in Egitto e diffusosi poi in tutto il mondo islamico che criticava la decadenza occidentale e predicava un ritorno ai valori musulmani. Tuttavia, Ramadan dice: "Sono europeo, sono cresciuto qui. Non rinnego le mie radici islamiche, ma non denigro neppure l'Europa". Il suo libro To be a European Muslim (Essere un musulmano europeo), è già stato tradotto in varie lingue.
Lo scorso 30 marzo, questo intellettuale ha lanciato un "appello mondiale alla moratoria sulle punizioni corporali, la lapidazione e la pena di morte nel mondo musulmano". I commenti di molti musulmani, fra cui il teologo Gamal al-Banna, sono stati positivi. Mentre Abd al-Azim al-Mutani, docente all'autorevole Università di al-Azhar del Cairo, l'ha bocciata senz'appello.
Fonte: Missione Oggi