Il punto - La diplomazia resta uno strumento fragile

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Immagine: Unsplash.com

Andiamo in Darfur, in Sudan. La partita di Risiko passa anche da lì, fra i neo imperi di questi anni. La situazione è sempre più drammatica. Secondo l’ufficio diritti umani delle Nazioni Unite, le atrocità nella città di El Fasher sono “inimmaginabili” e ormai la fuga dalla città è diventata massiva: circa 82.000 persone sono già scappate su una popolazione stimata di 260.000 abitanti. Oltre venti Paesi hanno firmato una dichiarazione in cui denunciano “violazioni abiette”. Anche qui, come a Gaza, tattiche di assedio e fame sono usate come arma di guerra nei confronti dei civili. Sul piano militare, l’azione delle forze paramilitari del Rapid Support Forces (RSF) trova un governo centrale incapace di riacquisire il controllo dell’area. La guerra resta ai margini nei grandi media e dunque c’è scarsa pressione internazionale: nessuno grida basta. Sul fronte diplomatico, emerge un’ulteriore debolezza, perché manca una piattaforma di pace concreta, un negoziato efficace.

La diplomazia resta uno strumento fragile. Come in Asia sud-orientale. Lì, il fragile accordo di pace tra Thailandia e Cambogia ha già mostrato crepe consistenti. Dopo l'esplosione di una mina, che ha ferito quattro soldati tailandesi nella provincia di Sisaket Province, Bangkok ha formalmente sospeso il trattato di cessate il fuoco mediato da Donald Trump. Phnom Penh ha negato di aver seminato nuove mine. L’incidente, dice, è dovuto a vecchie guerre del passato.  Questo scontro appare come  “minore”, nella scala mondiale, eppure dimostra come ogni singolo confronto armato sia legato a logiche complesse, a interessi di potenze più grandi. La diplomazia pareva aver creato le condizioni per un accordo, il Kuala Lumpur Peace Accord, firmato il 26 ottobre di quest’anno. Invece, siamo davanti ad una tregua teorica che si sgretola subito, una zona grigia dove la distanza fra pace firmata e pace reale è vasta.

Come nella striscia di Gaza, dove si continua a morire. L’ultima settimana ha vissuto un una doppio binario: da un lato, segnali diplomatici, come la liberazione degli ultimi 20 ostaggi vivi da parte di Hamas e la restituzione delle salme di 24 ostaggi deceduti. Una scelta coerente con l’accordo firmato con Israele. Dall’altro, la violenza non è affatto sparita. Si sono registrati numerosi raid israeliani. Le demolizioni e la crisi umanitaria restano protagoniste. Dal punto di vista delle cancellerie internazionali, la diplomazia pare ormai stanca. La mediazione internazionale appare orientata più alla gestione dell’emergenza, che alla costruzione di una pace stabile. Le condizioni strutturali della guerra, cioè occupazione, diritti, ricostruzione, futuro politico, restano irrisolte. In questo quadro la tregua sembra più un intervallo fragile che l’avvio di un percorso nuovo. La conferma pare arrivare dalla Cisgiordania, dove continua l’occupazione abusiva e illegale di territorio da parte dei coloni israeliani. E arriva, la conferma, anche dal Sud del Libano, sempre più occupato dalle forze armate di Tel Aviv.

Scorre sangue in Palestina. Altro sangue scorre sul fronte ucraino, nella grande guerra di logoramento con l’occupante russo. Lo Stato Maggiore delle forze armate ucraine nega l’accerchiamento della città di Pokrovsk. La parte russa reclama, invece, avanzate locali, basate su attacchi di droni e target energetici. A livello diplomatico, si tenta di riallacciare il dialogo fra Mosca e Washington, tenendo sempre ai margini - è un paradosso significativo - Kiev. Il ministro russo Sergei Lavrov ha dichiarato di essere pronto a incontrare il senatore americano Marco Rubio, dopo la rottura apparente nei canali comunicativi con Mosca.  La diplomazia appare comunque in difficoltà. Da un lato Unione Europea e Stati Uniti faticano a mantenere l’unità nel sostegno economico e militare all’Ucraina. Dall’altro la Russia sembra sempre più puntare al logoramento, senza cercare un accordo rapido. Il risultato è una “guerra che continua” senza prospettiva immediata di disimpegno.

Questo il quadro generale. Restano sospese all'orizzonte le guerre e le vittime del Myanmar, dello Yemen, dell’Africa sub sahariana. Ma l’ultima settimana ha confermato ciò che già sapevamo: che le guerre in corso non sono eventi straordinari, ma parte di un problema in espansione. La diplomazia sembra funzionare più come tappabuchi, che come agente trasformativo. Così, il Sudan va verso un baratro dimenticato, la Thailandia e la Cambogia oscillano tra pace e ripresa del conflitto, Gaza è nel limbo di una tregua fragile, e l’Ucraina resta intrappolata in una dinamica di attrito. Ogni soluzione appare lontana. E in questo stallo drammatico, milioni di esseri umani continuano a morire.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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