Inquinamento e virus: le relazioni pericolose

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Foto: Unsplash.com

Non torneremo alla normalità. Si intitola così l’articolo a firma di Gordon Lichfield, direttore del MITTechnology Review, la rivista del Massachussets Institute of Tecnology. E la sua non è una profezia catastrofista, ma una lucida analisi basata sugli studi dell'espansione dell'epidemia del Covid-19 nel Regno Unito.

Tra i motivi di un incipit così grave e assertivo Lichfield annovera ragioni economiche, sociali, sanitarie, relazionali: una realtà intorno a cui il nostro cervello, il nostro corpo, i nostri modi di stare con gli altri dovranno costruire nuove abitudini giorno dopo giorno, per la quale si dovranno trovare, e piano ci stiamo tutti già provando, nuovi modi di ripensare il nostro quotidiano.

E tra questi, forse, potrebbero finalmente ritagliarsi un posto riflessioni più oneste e impegnate sul tema dell’inquinamento e dei cambiamenti climaticiSembra che, tra le tante fragilità che ci appartengono e che questo virus ci ha sbattuto in faccia con la violenza delle morti senza carezze, lo sfinimento degli ospedali e di chi ci lavora, il collasso dei lavoratori più deboli e le speculazioni dei più forti, la solitudine da gestire e contemporaneamente il sovraffollamento di relazioni improvvisamente più dense e digitali… Ecco, tra tutte queste fragilità sembra emergere anche, ancora una volta, quella del Pianeta. Con tante correlazioni che, come i nodi di una coperta troppo corta, vengono al pettine su due livelli in dialogo.

Da un lato, il presunto legame tra la diffusione del virus e l’inquinamento atmosferico. Fantasie visionarie di burloni annoiati e news faker? Sembra di no. A sostenerlo sono infatti studiosi che afferiscono alla Società italiana di Medicina Ambientale (SIMA) provenienti dalle Università di Bologna, Bari, Milano e Trieste. Dati che trovano conferma anche in una ricerca indipendente dell’Università di Trento che, seppur in mancanza di dati medici, evidenzia una correlazione proporzionale tra l’aggressività del Covid-19 e l’esposizione alle polveri sottili. Quello che emerge è infatti un rapporto tra il superamento dei limiti di legge per PM10 e PM2,5 (dati Arpa) e il numero di casi infetti da Covid-19 (dati Protezione Civile). Questo non significa che l’inquinamento abbia causato il virus. Significa piuttosto che l’elevato livello di particolato esercita un impulso alla diffusione dell’epidemia e funge da vettore per il suo trasporto. Insomma, è come se l’inquinamento fornisse all’infezione terreno fertile per svilupparsi, idea che non è d’altronde nuova e che già riguarda studi su malattie come la polmonite e il morbillo e su contaminanti chimici e biologici.

C’è però anche un altro motivo per cui virus e inquinamento sono legati. Il blocco a cui il nostro Paese è stato sottoposto sembra aver prodotto nelle mappe che ne rilevano la qualità dell’aria un calo considerevole dell’inquinamento atmosferico. Tutti a casa, e si vede il cielo. Lo evidenziano le immagini inviate, com’è accaduto all’inizio di marzo per la Cina, dalla NASA e dal satellite Sentinel-5 dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), che mostrano come adesso, anche nell’Italia settentrionale (sopra quella stessa Pianura Padana spesso in cima alle classifiche delle aree più inquinate) il biossido di azoto, uno dei gas generati dalla combustione di combustibili fossili (impianti di riscaldamento, motori dei veicoli, combustioni industriali, centrali di potenza), abbia ridotto la sua presenza fino quasi a dissolversi.

È evidente che queste rilevazioni portano con sé una certa malinconia e, se con ulteriori ricerche ed esplorazioni approfondite, queste ipotesi saranno confermate non sarà del tutto una buona notizia, ma una di quelle che lasciano l’amaro in bocca. Prima di tutto perché esito di una limitazione delle libertà in tempi di emergenza e non frutto di lungimiranti scelte politiche. E poi perché il costo umano e il disastro economico che fanno paio con l’epidemia in corso potrebbero rendere ancor più difficile la lotta ai cambiamenti climatici, sia per la mancanza di risorse sia per l’ansia di recuperare in fretta il tempo “perso” nella corsa alla produzione e al consumo. 

Sarà dunque fondamentale ripensare totalmente più di un aspetto del nostro stare al mondo: le interazioni sociali, lo stile di vita, i servizi, l’organizzazione dei processi produttivi. Su quest’ultimo aspetto, sarebbe auspicabile (ce la faremo stavolta?) orientare gli investimenti in modo sostenibile al momento della ripartenza, ripensando filiere più corte, dipendenze internazionali meno estenuanti e condizionanti, lavoro agile come un modello e non un obbligo dovuto alle contingenze. Potrebbero essere queste alcune, e solo alcune, delle piste da percorrere per poter dire, come poche volte nella storia si può fare, che abbiamo fatto tesoro degli errori per non ripeterli.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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