In Messico è altolà ai narcos

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Messico e nuvole, la faccia triste dell’America” cantava Enzo Jannacci nel lontano 1970 proponendo al pubblico un testo poi riprodotto negli anni da altri artisti. Di violenza, droga e corruzione parlano ancora oggi le cronache del Paese centroamericano che nel primo trimestre del 2019 hanno registrato ben 8493 omicidi, con un aumento del 9,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. È possibile che nel 2019 si superi il record del 2018 ritenuto “il più violento nella storia del Messico”: un macabro conteggio dovuto in gran parte al narcotraffico. Proprio sui narcos, il presidente messicano López Obrador, in carica dallo scorso dicembre, aveva preso una posizione innovativa rispetto alle precedenti amministrazioni dichiarando “Affronteremo le cause con programmi per i giovani, con nuove opportunità di lavoro e con l’istruzione. Non useremo solo la forza. Analizzeremo tutto ed esploreremo tutte le strade che ci permetteranno di raggiungere la pace. Non escludo nulla, nemmeno la legalizzazione, niente”. Un piano di contrasto all’escalation di violenza in 8 punti col quale il presidente guarda al consumo di droga come una questione di salute pubblica e unisce alla promessa di eliminare il ricorso alla tortura, quello di proporre riduzioni di pena ai collaboratori di giustizia nonché di porre fine a corruzione e povertà

Una volta insediato, l’avvio della sua politica ha coinciso con la condanna de El Chapo, narcotrafficante leggendario (all’anagrafe Joaquin Guzman Loera) arrestato ed estradato negli Stati Uniti nel 2017 dopo le due precedenti spettacolari evasioni dalle carceri del Messico; con i suoi 10 capi di imputazione (esportazione di oltre 155 tonnellate di cocaina verso gli USA, omicidi torture e violenze di ogni genere per eliminare i cartelli rivali, corruzione sistematica di polizia militari e politici tra cui gli ultimi due presidenti messicani, Felipe Calderón ed Enrique Peña Nieto), è stato riconosciuto colpevole lo scorso febbraio e resterà probabilmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di New York fino alla fine dei suoi giorni. 

Se l’obiettivo di López Obrador è quello di attivare una serie di programmi sociali e progetti per tenere i giovani lontani dalla criminalità organizzata, piuttosto che concentrare gli sforzi sui narcotrafficanti in quanto “la guerra dei narcos non esiste più”, il presidente appare illudersi. L’arresto de El Chapo non ha ridotto gli spargimenti di sangue nel Paese che, anzi, si sono amplificati in assenza di capi indiscussi e in coincidenza con la frammentazione delle bande più grandi. Nonostante l’impegno congiunto delle polizie di Stati Uniti e Messico, il traffico di droghe prosegue a gonfie vele come denuncia la DEA - Drug Enforcement Administration (Agenzia federale statunitense antidroga) che stima un aumento del 37% della produzione di eroina in Messico nel 2017 e un analogo impennamento per la cocaina in Colombia. La violenza diffusa rende le città messicane tra le più pericolose al mondo, seconde solo a quelle interessate da un conflitto armato ufficiale come la Siria.

Resta nell’agenda presidenziale l’arma della legalizzazione di alcune droghe (come la marijuana per uso medicinale e ricreativo o il papavero da oppio per uso esclusivamente farmaceutico), una proposta avanzata già in passato come strategia per sottrarre potere e fondi al narcotraffico. La parziale legalizzazione e l’avvio di un processo di pacificazione con la creazione di Commissioni di verità e giustizia sono avanzate come ricette innovative all’endemico problema del narcotraffico in Messico. Tuttavia, proprio quest’ultimo aspetto risulta il più difficoltoso da attuare: numerose famiglie delle vittime del narcotraffico hanno già espresso la loro assoluta contrarietà dinanzi ai discorsi del presidente López Obrador nei quali dichiarava di non credere nella “legge del taglione” in riferimento al trattamento dai narcos arrestati. Nondimeno, gli esperti di sicurezza messicani ipotizzano anche l’avvio di un piano di contrasto militare che intenderà ridurre la violenza “estrema” ed endemica nel Paese, rinunciando però probabilmente a perseguire i reati meno violenti. Tale politica sembra tracciare un evidente percorso: chiudere un occhio sul traffico di droga in cambio dell’interruzione della scia di sanguinosa violenza da troppo tempo in corso ed oggi addirittura acuita

Di certo cambiare il paradigma dello scontro può essere non solo utile ma necessario. Nell’immaginario comune appare davvero difficile pensare a un Messico privo della guerra dei narcotrafficanti, e ciò la dice lunga sul fallimento di qualsiasi strategia esperita sinora. Anzi, dati alla mano e a dispetto della condanna de El Chapo, la forza oggi dei narcos messicani risulta al culmine. Gravi violenze, minacce, omicidi, traffici di droga diretti in tutto il mondo: qualsiasi strategia non potrebbe che fare di meglio.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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