In Italia due delle più gravi contaminazioni da PFAS a livello europeo

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C'è un veleno che scorre dai rubinetti delle nostre case, presente nell'aria che respiriamo, nella terra che coltiviamo. Non si vede, non si sente, ma entra nei nostri organismi per non uscirne più. Sono i PFAS, sostanze perfluoroalchiliche, molecole sintetiche dai legami infrangibili tra atomi di carbonio e fluoro, che garantiscono resistenza a calore, acqua, acidi e grassi. Proprio questa indistruttibilità le rende "inquinanti eterni", capaci di accumularsi nell'ambiente e nei nostri corpi, con effetti a lungo termine sulla salute. L'Italia ospita due delle più gravi contaminazioni da PFAS a livello europeo. Una storia di profitto, omissioni e di conflitti ambientali che ancora oggi chiamano a raccolta le popolazioni di Trissino, a Vicenza, e di Spinetta Marengo, ad Alessandria.

L'epicentro di uno dei crimini ambientali più gravi del nostro Paese si trova in provincia di Vicenza, a Trissino. Qui, l'azienda chimica Miteni, per cinquant'anni, ha prodotto PFAS. La vicenda ha radici profonde, risale a sessant'anni fa, quando l'azienda locale Ricerche Marzotto (RiMar) acquisì brevetti da giganti come DuPont e 3M. Già nel 1977 qualcosa non andava: l'acqua dai rubinetti divenne gialla. Ma la storia era appena cominciata.

Per decenni, la Miteni ha scaricato queste sostanze, invadendo la seconda falda acquifera più grande d'Europa. Oggi, 350mila persone tra le province di Padova, Verona e Vicenza devono fare i conti con gli inquinanti eterni nei suoli, nelle acque e nel loro sangue. In venti comuni, l'acqua potabile è interdetta all'uso umano e agricolo dal 2018, e 600 chilometri quadrati di terreni sono vietati alla coltivazione. Nel frattempo nella popolazione sono aumentate le percentuali di Parkinson, Alzheimer, tumori al fegato, alle ovaie e ai testicoli. L'azienda e le sue gestioni successive  erano consapevoli della contaminazione da tempo. La vicenda processuale ha accertato che Miteni sapeva dal 2004 e chiese di nascondere i dati delle analisi. Nessuna delle sigle che successivamente si sono passate la proprietà degli stabilimenti è mai intervenuta sulla contaminazione.

Tutto taceva, fino a quando non ha preso parola un gruppo di mamme che ha scoperto livelli allarmanti di PFAS nel sangue dei propri figli. Le "Mamme No Pfas" hanno lanciato una radicata e radicale campagna di informazione, sensibilizzazione e denuncia, chiedendo biomonitoraggi e l'apertura di un processo penale. Hanno portato questa vicenda nelle aule di tribunale con un maxiprocesso per avvelenamento e disastro ambientale che vede imputati ex dirigenti di Miteni e delle società che l'hanno rilevata. La fabbrica ha chiuso nel 2018, fallita. Ma le aziende subentrate non hanno risanato l'ambiente.

La svolta è arrivata questo maggio. Il Tribunale di Vicenza ha riconosciuto, con elevato grado di probabilità, il nesso causale tra l'esposizione a PFAS (anche per via aerea) e il tumore mortale di un ex operaio Miteni, Pasqualino Zenere. Zenere è stato esposto, in maniera fatale, ai fumi e agli acidi provenienti dal reparto adiacente dove si producevano i PFAS in forma di polvere (chi non lavorava direttamente alla produzione, non aveva maschere di protezione). Questa sentenza, per la Cgil Veneto, rappresenta una "vittoria storica", la prima al mondo a riconoscere giudiziariamente questo legame, smentendo chi, ancora nel processo Miteni, nega correlazioni evidenti tra PFAS e patologie. E dimostra come le aziende fossero consapevoli dei rischi sanitari per i propri operai già all'inizio degli anni 2000, chiedendo addirittura consulenza assicurativa contro possibili richieste di risarcimento.

Ma c’è un posto, in Italia, dove ancora si producono PFAS: il polo chimico di Spinetta Marengo, Alessandria, guidato dal gruppo belga Solvay, oggi Syensqo. Questo sito, che ha attraversato reincarnazioni aziendali da Montecatini a Ausimont, ha una storia di inquinamento visibile fin dagli anni '50, quando un pulviscolo corrosivo bucava le grondaie e il sapore di zolfo impastava la bocca dei ragazzi che giocavano a pallone. Nella fabbrica, gli operai del reparto bicromi erano chiamati "la tribù dei nasi forati" per via del piombo e del cromo che lavoravano.

Dagli anni '80 l'inquinamento è diventato meno evidente, più sottile. Attualmente Solvay (oggi Syensqo) produce uno PFAS a catena corta, il C6O4. I PFAS a catena corta sono presentati come sostituti sicuri dei PFAS a catena lunga come il PFOA, la cui produzione è stata interrotta dall'industria per la sua tossicità. Sono già finiti ovunque. 

Le analisi di ARPA Alessandria nel 2024 hanno accertato la presenza di PFAS cancerogeni (come il PFOA, mai prodotto da Solvay/Syensqo e utilizzato da Solvay fino al 2013, acquistato da Miteni fino al 2012) e dei nuovi composti (C6O4, Adv) nel suolo e nell'acqua attorno allo stabilimento. I livelli di PFOA in pozzi esterni superano il limite ambientale di otto volte da oltre sei anni. C6O4 ha raggiunto concentrazioni altissime (200mila µg/L, poi stabilizzatosi a 10mila µg/L) in un pozzo dopo un incidente nel marzo 2024, livelli paragonabili a quelli di PFOA a Miteni che portarono alla chiusura.

Il "nuovo polimero", il C6O4, brevettato da Solvay, è stato trovato in concentrazioni preoccupanti nel pozzo di Montecastello, a 9 km di distanza. Il sindaco di questo piccolo comune che conta appena 275 abitanti, Gianluca Penna, ha sfidato il gigante chimico, denunciando la contaminazione della falda, arrivata attraverso i fiumi Bormida e Tanaro dove la fabbrica scarica. Nonostante Solvay abbia negato responsabilità, sostenendo che la falda di Spinetta non fosse collegata a Montecastello, il percorso dell'inquinamento sembra evidente attraverso i corsi d'acqua. Penna ha aderito a progetti scientifici e chiesto screening della popolazione. Gli abitanti di Montecastello sono diventati la comunità campione per uno studio per capire gli effetti dei nuovi PFAS nel sangue.

Tracce di GenX, una molecola non presente nell’autorizzazione ambientale della fabbrica e che la proprietà nega di produrre, sono state trovate nell'aria di Alessandria e, tramite analisi indipendenti, nei pozzi privati anche a 10 km di distanza, insieme a C6O4, Adv e PFOA. Queste acque, usate per irrigare, in passato erano bevute dai residenti. Un recente incidente (marzo 2025) con alti livelli di CFC interni al sito e il blocco del sistema di barriera idraulica, seppur temporaneo, hanno sollevato ulteriori preoccupazioni sulla fuoriuscita di sostanze, nonostante l'azienda affermi di aver notificato gli enti e che i monitoraggi esterni non abbiano rilevato anomalie significative.

La bonifica per il PFOA, ora riconosciuto come cancerogeno certo dallo IARC (2023), è bloccata a Spinetta Marengo perché la sua presenza, misurata in anni precedenti, richiede una rivalutazione. Il comitato Stop Solvay ha avviato biomonitoraggi dal basso. Grazie anche alla collaborazione con Mamme No Pfas venete e università estere, le analisi indipendenti hanno rivelato quantità altissime di PFAS (inclusi Adv e C6O4) nel sangue degli abitanti, anche sopra le soglie di allerta. Di fronte a questi dati allarmanti, l'azienda ha minimizzato, definendo i campioni troppo ristretti perché abbiano valenza statistica. Il biomonitoraggio ufficiale, partito solo a fine 2024, presenta diversi limiti: pur cercando 14 PFAS, non terrà in considerazione i valori di Adv e C6O4 nei referti, perché non inclusi nei valori di riferimento europei. Questo nonostante studi indichino l'Adv come potenzialmente molto più tossico del PFOA. E altre sostanze prodotte e rilasciate dalla fabbrica, come Fsve, pur note alle autorità dal 2021, non vengono ricercate né negli scarichi né nel sangue.

A pesare come un macigno, in questa vicenda, è l’assenza della politica. Gruppi più o meno nutriti di cittadine e cittadini si sono attivati. Hanno fatto rete con altre associazioni, altri territori. Sono stati coinvolti istituti di ricerca: dove possibile, italiani, ma anche esteri. Anche la stampa – certo non quella mainstream – si è interessata alle vicende (in particolare su questo si segnala il lavoro encomiabile di Laura Fazzini). Un colosso dell’ambientalismo come Greenpeace ha abbracciato la battaglia contro i PFAS in maniera radicale, fornendo importanti dati e documentandone l’impatto in tutta Italia, oltre che supportando le popolazioni locali. Ma dalle istituzioni locali, quasi il vuoto. Questa vicenda mostra, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto determinate classi politiche, di fronte alle ingerenze di grandi soggetti economici, siano disposte ad abdicare completamente il proprio ruolo di garanzia dei diritti della cittadinanza.

Alla storia della contaminazione da PFAS di Spinetta Marengo sarà dedicata la quarta puntata del podcast Molecole, storie di legami e di veleni, prodotto da A Sud, Fandango e Valori.it, che uscirà il prossimo giugno. 

Rita Cantalino

Napoletana, classe ‘88. Freelance, collabora con diverse testate. Si occupa di ambiente, clima e diritti umani, con uno sguardo particolare agli impatti sanitari e sociali delle contaminazioni di natura industriale.

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