Il rebus del Patto e del voto finale

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Sul nuovo Patto di Stabilità e crescita avrebbe dovuto crearsi una convergenza di interessi italiani, francesi e spagnoli, invece ha prevalso un voto nazionalistico. Alla fine abbiamo regole più flessibili ma sempre con effetti fortemente deflattivi, che ci allontanano dalle politiche espansive di Usa e Cina.

Il Parlamento europeo il 23 aprile ha votato il nuovo Patto di Stabilità e Crescita (PSC); il voto del Parlamento riflette, in realtà, una divisione politica e progettuale circa i propositi del nuovo del patto: 367 voti a favore e 230 sfavorevoli, se consideriamo anche gli astenuti, manifestano quanto e come le regole fiscali sottese dividano, più che unire, l’Europa. Il PSC poteva essere votato a maggioranza, ma la principale impalcatura del governo della finanza pubblica degli Stati europei, che condiziona financo gli obiettivi di transizione verde e digitale delineata dalla stessa Commissione, 600 miliardi di euro cada anno per 15 anni per la sola transizione verde, dovevano trovare un consenso più ampio. L’impressione è quella di un’Europa che rinuncia ad avere un ruolo nel consesso internazionale, in particolare rispetto alle politiche espansive di Cina e Stati Uniti. Non sono stati sufficienti la pandemia, la guerra in Ucraina, l’impoverimento di struttura rispetto ai principali competitors internazionali, a scardinare in Europa i soliti riflessi condizionati. 

Il PSC è così l’esito dello scontro tra estremismi culturali: da un lato il dogma tedesco del deficit pubblico zero, introdotto dopo la crisi del 2009, dall’altra Francia e Italia che invano chiedevano una maggiore e coerente flessibilità per sostenere gli investimenti. Il voto favorevole dei deputati francesi al PSC non è un buon risultato per l’Europa, piuttosto restituisce quanto e come i singoli Stati non riescano a realizzare le necessarie alleanze per conseguire risultati importanti, almeno per le materie che veramente condizionano le politiche pubbliche, fiscali e quindi il benessere dei cittadini. Questa mancata alleanza, che doveva essere molto più ampia, dei deputati francesi e italiani, avrebbe potuto coinvolgere anche la Spagna, per far parte di questo blocco innovativo. Mentre ciò che si. è verificato riflette la deriva nazionalista degli Stati europei, che non prelude a niente di buono.

Ora c’è da dire che il nuovo PSC indiscutibilmente introduce un certo gradualismo nell’aggiustamento fiscale dei conti pubblici, con percorsi personalizzati Paese per Paese, condizionato da riforme e investimenti durante i sette anni considerati (difesa, priorità comuni e cofinanziamento dei Fondi UE), ma rafforza i parametri numerici di rientro dagli squilibri e non prevede un bilancio comune comunitario e tanto meno gli eurobond. Alla fine è prevalsa una logica di bassissimo profilo ed è prevalso il nazionalismo. L’Europa perde una occasione storica per rigenerare le sue istituzioni e i propositi di politica economica. Una rinuncia che impoverisce il progetto europeo, tanto più che le sfide da affrontare meriterebbero una programmazione di medio-lungo periodo evitando di guardare agli interessi particolari nazionali e peggio ancora il piccolo cabotaggio elettorale nel voto di giugno, vissuto in chiave nazionale anche quello, come se questo voto nel presente non condizionasse il futuro della stessa Europa Comunitaria...

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