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Il dogma delle privatizzazioni
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Foto: Bundo Kim da Unsplash.com
Per avere un po’ di soldi sporchi, maledetti e subito, si raschia il fondo del barile regalando al mercato imprese strategiche o servizi di interesse generale. È così che è stato pomposamente annunciato il secondo tempo della privatizzazione di Poste italiane, un passaggio ridicolo anche dal punto di vista economico. Il governo Meloni si appresta a vendere l’intera quota in mano al Ministero dell’Economia e della Finanza, pari al 29,26% del capitale sociale, contando di incassare 3,8 mld di euro. Per l’abbattimento del debito pubblico, che viaggia sui 2.860 mld di euro, siamo alla presa per i fondelli; per il bilancio, contando che l’utile attuale di Poste è pari a 1,5 mld/anno (500 ml/anno il dividendo per lo Stato), significa che nell’arco di otto anni l’incasso ottenuto dalla privatizzazione verrebbe sterilizzato dalla perdita dei dividendi annuali, avendo perso il controllo di un ente pubblico senza aver ricavato nulla dal punto di vista economico.
Il dogma delle privatizzazioni continua ad essere il faro dei governi italiani, siano essi in mano al mitizzato centro-sinistra di Prodi, al pilota automatico di Draghi o al nazionalismo sovranista di Meloni. Come una litania ipnotica, ogni volta che si affronta la tematica del debito pubblico -artatamente raccontato come il problema dei problemi- scatta il riflesso condizionato delle privatizzazioni.
E così anche l’ammucchiata reazionaria che ha oggi in mano le redini del Paese affida il proprio destino alla vendita dei gioielli di famiglia. Non che ne siano rimasti molti, dopo la scorpacciata degli anni ’90, che aveva permesso nel 2001 all’allora ministro del Tesoro, Vincenzo Visco, di introdurre il Libro Bianco sulle privatizzazioni con queste parole:
“La legislatura si conclude con la pressoché totale fuoriuscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare”. Ma tant’è, si raschia il barile per avere un po’ di soldi ‘sporchi, maledetti e subito’, regalando al mercato imprese strategiche o servizi di interesse generale.
E’ così che è stato pomposamente annunciato il secondo tempo della privatizzazione di Poste italiane, un passaggio ridicolo anche dal punto di vista economico. Il governo Meloni si appresta infatti a vendere l’intera quota in mano al Ministero dell’Economia e della Finanza, pari al 29,26% del capitale sociale, contando di incassare 3,8 mld di euro.
In termini di abbattimento del debito pubblico, che viaggia sui 2.860 mld di euro, siamo alla presa per i fondelli; in termini di bilancio, contando che l’utile attuale di Poste è pari a 1,5 mld/anno (500 ml/anno il dividendo per lo Stato), significa che nell’arco di otto anni l’incasso ottenuto dalla privatizzazione verrebbe sterilizzato dalla perdita dei dividendi annuali, con il risultato di aver perso il controllo di un ente pubblico senza aver ricavato nulla dal punto di vista economico...






