www.unimondo.org/Notizie/Il-diritto-a-prostituirsi.-Pro-e-contro-148015
Il diritto a prostituirsi. Pro e contro
Notizie
Stampa
Una normativa leggera, la possibilità di organizzarsi in piccole cooperative, corsi di formazione e niente controlli sanitari obbligatori. È così che Pia Covre, attivista, fondatrice del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, immagina una riforma della legge Merlin che nel 1958 chiuse le case di tolleranza segnando così la fine di un’epoca. In un dibattito organzzato dalla Casa internazionale delle donne di Trieste lo scorso 19 settembre, Covre rivendica il diritto a esercitare il mestiere più antico del mondo, o per usare le sue parole, a “darla via a pagamento perché il mio corpo vale, la mia sessualità vale”.
Come nasce il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute?
Nasce nel 1982 da un gruppo coeso di prostitute. Eravamo una decina, tutte persone che vivevano stabilmente a Pordenone. Giovani donne che avevano scelto di mettere in pratica il motto femminista “il corpo è mio e me lo gestisco io”, convinte che la nostra sessualità valeva in quel mondo maschilista e che poteva essere data via non solo gratuitamente ma anche per denaro. Volevamo far valere la nostra scelta e sentivamo il bisogno di reagire all’atteggiamento di disprezzo e violenza di alcuni soldati americani della base militare di Aviano nei nostri confronti, un atteggiamento che probabilmente è retaggio del proibizionismo del loro paese. Ma anche al trattamento da criminali che ricevevamo dalle forze dell’ordine. Così, in seguito allo stupro di una nostra collega, trascinata sulla strada da una macchina, scrivemmo una lettera di protesta al Comando americano. Questa nostra azione montò sulla stampa e avviammo un dialogo con i partiti presenti nel Parlamento per arrivare a una riforma della legge Merlin.
Quali erano le vostre rivendicazioni? Sono attuali ancora oggi?
Allora chiedevamo la decriminalizzazione totale della prostituzione e che lo sfruttamento venisse condannato. Non eravamo pronte e non era pronto il Paese a chiedere il riconoscimento della prostituzione come professione, cosa che invece oggi rivendichiamo. Vogliamo che ci venga riconosciuto il diritto a lavorare con il nostro corpo ma allo stesso tempo vogliamo la libertà di gestire questo lavoro autonomamente. Vorremmo auto-organizzarci in piccole cooperative o imprese di quattro o cinque lavoratrici autonome, come stanno tentando di fare per esempio in Spagna.
Non vogliamo la riapertura dei bordelli. Certo, ad alcune di noi piace lavorare in posti meravigliosamente organizzati e protette da buttafuori. Ma non tutte vogliono questo. Ritengo che prima di tutto debba essere garantita l’indipendenza perché è una cosa preziosa che verrebbe inficiata se si obbligasse la prostituta a esercitare unicamente in un sistema gestito da terzi che non fanno il lavoro di prostituzione.
Con il riconoscimento della prostituzione in che modo cambierebbe la situazione per le sex workers straniere, di coloro che intraprendono questo percorso contro la loro volontà, e per le vittime di tratta?
Innanzitutto, pensiamo che chi lo fa contro la volontà non debba fare questo mestiere. Regolarizzando la professione diventerebbe più facile individuare i casi sommersi e le vittime di tratta avrebbero più forza nel rivolgersi alle forze dell’ordine ed essere protette.
Tra i vari disegni di legge in discussione quale reputa migliore?
La proposta più lungimirante è quella della senatrice Maria Spilabotte del PD, che però ritengo troppo complessa. Per esempio, da quella proposta andrebbe tolto il controllo sanitario per l’HIV e le malattie sessualmente trasmissibili ma anche un generico certificato di buona salute. Complessa anche la parte fiscale, per esempio l’iscrizione alla Camera di Commercio e le tasse pagate in anticipo. La normativa dovrebbe essere leggera perché specificando troppo nel dettaglio si finisce per rendere la legge non applicabile e facilmente violabile. Bisogna fare una legge piuttosto elastica che tuteli tipologie diverse di sex workers, dalle massaggiatrici alle escort, con contesti anche di servizi molto diversi. Poi andrebbero introdotti corsi di formazione e sensibilizzazione per operatori sociali e sanitari e per le forze dell’ordine. Ma anche per le stesse prostitute perché per fare questo lavoro non ci si può improvvisare, bisogna imparare a difendersi in strada, nell’esercizio di pratiche particolari come il sadomaso e così via. Non per niente noi ci organizzavamo con le cosiddette navi scuola: prostitute più esperte che insegnavano alle più giovani.
Perché è contraria al controllo sanitario obbligatorio? Questo è previsto in molti paesi come l’Austria ad esempio.
C’è il falso mito che le donne sottoposte a controllo siano al cento per cento sane nel momento della prestazione. Il cliente tende a non pensare al rischio dato dalla finestra temporale che intercorre tra la contrazione della malattia e la visita medica, si sente sicuro e propone o accetta con maggiore facilità un rapporto senza preservativo, mettendo così a rischio la salute propria, della lavoratrice e della moglie. C’è molta ignoranza sui metodi per fare sesso sicuro. Bisognerebbe investire di più per garantire l’accesso ai servizi per la salute e infine in una vera educazione sessuale a scuola per i ragazzi.
Finora abbiamo parlato al femminile. Sappiamo però che non sono solo le donne a prostituirsi ma anche gli uomini e transessuali di entrambi i sessi. Quali accorgimenti andrebbero adottati in una legislazione gender-sensitive?
La legge non dovrebbe prevedere il genere, deve essere fatta per tutti, a prescindere dal genere.
Lei si considera una femminista? Con quali correnti femministe siete in sintonia e con quali correnti invece c’è polemica?
Io mi considero certamente femminista perché lotto per l’autodeterminazione della donna, che ritengo essere alla base dell’emancipazione. E il lavoro sessuale è una forma di emancipazione. Non saprei dire chi è a nostro favore e chi contro. Molto solidali sono per esempio i gruppi di donne e ragazze nate negli ultimi decenni come Sommosse e Femminismo Rivoluzionario e Proletario. Invece, per quanto riguarda i gruppi più grandi come UDI e SNOQ, al loro interno ci sono diverse posizioni e non tutte prendono in considerazione le nostre affermazioni. Alcune mettono in discussione la nostra libertà di scelta e non tengono conto della situazione reale delle donne, per esempio delle migranti. C’è chi ci accusa di svalutare l’immagine della donna quando invece noi pensiamo che le prostitute non siano un’immagine, siano donne e uomini che lavorano, da tutelare, e non da allontanare dagli occhi della società.
Un’ultima domanda. Tra i clienti delle prostitute ci sono anche persone disabili, i cui bisogni sessuali sono argomento di riflessione in politica. Penso al disegno di legge per l’istituzione anche in Italia, come già avviene in altri paesi europei, di figure professionali che sappiano accompagnare i disabili nella scoperta della propria sessualità. Il “Comitato per la promozione dell’assistenza sessuale in Italia“ ha già proposto a Bologna i primi corsi per “lovegiver”. Ritiene che anche la prostituta si possa considerare una figura professionale socialmente utile? La novità degli assistenti sessuali potrebbe aprire degli spazi legislativi anche in materia di prostituzione?
Certo, la prostituta ha una utilità sociale ma penso che l’autodeterminazione della propria sessualità non abbia bisogno di essere definita in questo modo. Ciò che mi interessa è rivendicare il mio diritto a fare questo lavoro. Poi, sì, ritengo necessario un servizio anche pubblico di assistenza sessuale ai disabili, e pur tenendo distinte le due professioni, si potrebbe pensare a fare svolgere questo tipo di assistenza a delle lavoratrici autonome che abbiano frequentato corsi di specializzazione, e siano in grado di modulare l’assistenza in base al tipo di disabilità.