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Il cittadino ha bisogno di vivere tranquillo
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Fin dagli albori dell’umanità ogni comunità sociale, grande o piccola che sia, ha dovuto fare i conti con la gestione della violenza. Si può anche dire che la società stessa ha inizio quando la violenza, insita quasi biologicamente nella specie umana, viene in qualche modo regolamentata, arginata, controllata. L’autorità pubblica (che poi si struttura in organismi sempre più complessi) detiene il monopolio della violenza che utilizza per tutelare l’ordine, attraverso corpi speciali e ben identificabili (quelle che oggi chiamiamo appunto “forze dell’ordine”). Le controversie poi si dirimono mediante i tribunali. Anche in questo caso una particolare categoria di individui, i magistrati, sono investiti del potere di decidere i torti e le ragioni, di comminare le pene, di ricostruire l’equilibrio nella comunità, una volta che esso era stato alterato da un delitto, da un reato o da una infrazione minore, ma comunque considerata turbativa del buon vivere civile. I tribunali sostituirono le vendette private, la giustizia “fai da te”. Così si interrompe il circolo vizioso per cui un’offesa reclama una vendetta che a sua volta non può restare impunita. La maledizione che insegue il casato degli Atridi, secondo il ciclo di tragedie di Eschilo “Orestea”, si rompe con il pronunciamento di un tribunale civile, scevro dagli oscuri e implacabili meccanismi del fato. Così nasce la civiltà.
Il trascorrere dei millenni non ha modificato di molto la situazione. Prima di tutto il “contratto sociale”, che regge una comunità si basa sulla possibilità di un ordine pubblico garantito. Esso implica che esista uno stato di diritto. Che l’autorità pubblica risponda alle leggi che si è data. Che non prevalga l’arbitrio del più forte o del più armato. Va evidenziato che dove l’autorità non soggiace alle norme da se stessa autoimposte cadiamo nel dispotismo e nella tirannide; in un regime dove, ancora una volta, dominerà la volontà del più forte.
Il cittadino ha bisogno di vivere tranquillo. Altrimenti salta tutto. Non potremmo uscire di casa, non potremmo fare progetti. Uno Stato incapace di garantire la sicurezza dei suoi cittadini può dichiarare subito il proprio fallimento. Ma come viene garantita questa sicurezza? Raddoppiando le telecamere? Munendo i vigili urbani di pistola? Inasprendo le pene? Proponendo leggi o addirittura tribunali “speciali”? Oppure garantendo per davvero lo stato di diritto attraverso norme chiare, processi spediti, pene certe e reinserimenti possibili? Oppure ancora insistendo sulla tutela dei diritti umani anche degli effettivi colpevoli?
Queste domande accompagnano da sempre la storia. Da poco, da quando la democrazia si è diffusa, è prevalsa l’idea che l’approccio securitario non funziona. Eppure oggi si levano sempre più spesso voci discordanti con toni cruenti ed esasperati, parole che invocano punizioni esemplari, giustizie sommarie: non si vorrebbe più giudicare l’individuo per le sue azioni singole ma per la sua appartenenza a un gruppo. Così si inverte lo slogan di Mao Zedong “colpirne uno per educarne cento” in “colpirne cento per educarne uno”. Una follia peggiore della prima.
Però nella società dell’informazione e della comunicazione qualcosa è effettivamente cambiato. Ciò che conta non è la sicurezza in sé, ma la percezione della sicurezza. Le frasi più ricorrenti che oggi si sentono tra la gente sono “una volta non era così”, “adesso ho paura ad uscire di casa”, “occorrono più poliziotti” e così via. E di chi è la colpa? Facile, degli stranieri. Al limite di una società imbarbarita, dell’incapacità dei politici, della perdita dei valori antichi. Peccato che, molto spesso, queste sensazioni non siano suffragate da dati concreti. Se la televisione dice che devi avere paura, non si scappa, la paura si diffonderà. Se gli episodi di micro criminalità vengono accentuati ecco che la gogna è pronta. Se il terrorista è dietro l’angolo, se per forza è arabo o mussulmano, allora si chiederanno provvedimenti di emergenza.
In Europa non si parla d’altro che di “guerra”. Si dibatte sulla necessità di limitare le nostre libertà a fronte di un’offensiva che vuole “distruggere il nostro modo di vivere”. Intanto, giustamente, viviamo come se niente fosse. Alle parole non corrisponde la realtà.
A volte mi sembra che la situazione ci sia sfuggita di mano. Perché? Perché basta un ubriaco, di notte, che aggredisce i passanti. No, non bisogna minimizzare. Ma neppure esagerare. E soprattutto mantenere i nervi saldi. In Italia il terrorismo degli anni ’70 è stato sconfitto senza lo stato di emergenza, senza sospendere le garanzie costituzionali. Così bisognerebbe fare anche oggi. Non c’entra nulla il buonismo o la retorica, ma un intelligente contrasto del crimine. La tranquillità è garantita soltanto in questo modo. Alternative non ci sono, se non quella di costruire un regno della paura. Questa è la fine della democrazia. Se vuoi difenderti, armati di più. Ma se tutti hanno un’arma la sicurezza aumenta o diminuisce?
Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.