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Il Nilo e le sue acque: fonte di vita e di tensione
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“One river, One people, One vision”. Non si tratta di una riedizione della nota canzone One degli U2 ma di uno slogan usato dalla Nile Basin Initiative (NBI) per cercare di riunire attorno allo stesso tavolo i 10 Stati rivieraschi del Bacino del Nilo. Dal 1999 Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, Kenya, Ruanda, Sudan, Sud Sudan, Tanzania e Uganda partecipano a questo forum regionale intergovernativo per una gestione condivisa e sostenibile delle acque del fiume Nilo e dei suoi benefici socio-economici e, non da ultimo, per promuovere la pace e la sicurezza dell’intero territorio.
Più facile a dirsi che a farsi quando occorre tener conto delle esigenze dei 238 milioni di persone che dal fiume traggono risorse naturali vitali per il consumo, per l’irrigazione agricola e per qualsiasi altra attività economica, dalla pesca all’industria e alla fornitura di energia elettrica. Una necessità dunque quella dell’accesso e del pieno controllo delle acque, specie in un momento in cui anche altre risorse essenziali come cibo ed energia, fondamentali per lo sviluppo delle nazioni, sono ancora più a rischio a causa dei cambiamenti climatici, le cui conseguenze sono ben tangibili in quella regione. Un dettagliato rapporto del Programma ONU per l’Ambiente (UNEP) sul Bacino del Nilo ha evidenziato un impoverimento dei livelli di sostanze nutritive nelle acque del fiume e un più generale deterioramento dell’ecosistema che espongono l’ambiente umano a una maggiore vulnerabilità.
C’è inoltre di che preoccuparsi dinanzi a valutazioni tecniche che giudicano la portata del bacino idrico del Nilo insufficiente a soddisfare i quantitativi di acqua richiesti dai vari Paesi rivieraschi, non sempre collegati alle effettive esigenze, in un quadro di consumi eccessivo determinato e consentito dalle numerose dighe costruite lungo il percorso del fiume. A Merowe e Kajbar in Sudan, Tekeze, Grande Rinascimento, Baro 1, Baro 2, Karadobi e Tana Beles in Etiopia, Bujagali e Karuma in Uganda: lo sfruttamento delle acque del Nilo attraverso ciascuna di queste dighe incide profondamente sulle possibilità di ogni Stato del Bacino di usufruire della risorsa, con una enorme disparità a favore di quei Paesi che si collocano più verso le sorgenti che alla foce del fiume, quando ormai la portata d’acqua è stata limitata dall’uso pregresso.
In questa situazione è evidente che l’intera regione è ad alto rischio di conflittualità, senza contare i danni sull’ambiente e per la sopravvivenza delle popolazioni indigene, questi ultimi spesso determinati dalle sostanziali modifiche apportate artificialmente al corso naturale dell’acqua. Il caso delle popolazioni Manasir, Amri e Hamadab, circa 50mila persone che sono state costrette a un esodo forzato a causa della costruzione della diga Merowe in Sudan, inaugurata nel 2009, è eloquente.
La potenza evocativa richiamata nel 2011 dalla costruzione della diga “Grande Rinascimento Etiope” (GERD) sul Nilo Blu, a pochi chilometri di distanza dal confine con il Sudan, ha nutrito una situazione di particolare tensione nell’intero Bacino del Nilo, specie per l’Egitto che dipende dal Nilo per il 90% dei suoi approvvigionamenti d’acqua, e in particolare per l’85% dalle acque del Nilo Blu. Al termine dei lavori costituirà la diga più grande d’Africa: lunga 1800m, alta 170m e del volume complessivo di 10 milioni di m³.
Una costruzione monumentale che si collega ad aspetti nazionalistici, tanto che, in modo del tutto inconsueto, il suo finanziamento è assicurato da capitali interamente etiopi e mira alla produzione di energia elettrica destinata anche all’esportazione verso altri Stati dell’Africa orientale, così come a cessioni in uso di terre fertili e inutilizzate. In questo quadro, che risente peraltro delle aspettative di egemonia di Egitto ed Etiopia nella regione, appare positiva la visita a fine settembre del ministro egiziano dell’Irrigazione, Hossam al-Moghazi alla diga GERD in costruzione: la prima realizzata al cantiere che, tra l’altro, porta la firma della ditta italiana Salini. Che sia l’avvio di un depotenziamento dei contrasti tra Il Cairo e Addis Abeba?
Molto probabilmente no, dato il progetto faraonico, è proprio il caso di dirlo, che il governo egiziano ha da tempo ideato per la costruzione di un nuovo Canale di Suez, il “Suez Axis”, realizzato accanto a quello esistente e lungo 72 Km, di cui 37 Km di scavo all’asciutto e 35 Km di espansione e approfondimento del canale esistente. Secondo i piani, l’opera dovrebbe essere completata per l’agosto 2015 e già se ne prevedono gli ambiziosi introiti: è stato infatti calcolato che entro il 2023 il nuovo Canale porterà nelle casse dell’Egitto più del doppio dei ricavi di quello attuale, passando a 13 miliardi di dollari dai 5 di oggi. Oltre ad assicurare un aumento esponenziale dei transiti delle navi, il governo egiziano mira a realizzare un enorme polo industriale e della logistica internazionale, tanto da aver previsto l’esproprio di un’area di 76mila Km2 attorno al canale che non può che preoccupare gli ambientalisti.
All’avversione per la corsa alla cementificazione si somma soprattutto la richiesta di creare un sistema di porte nel Canale, analogo a quello esistente a Panama, che impedisca alle specie presenti nel Mar Rosso di transitare nel Mar Mediterraneo e di produrre così preoccupanti cambiamenti nell’ecosistema. Un problema emerso dopo aver valutato l’impatto negativo delle specie “invasive” giunte attraverso il Canale di Suez nel Mediterraneo orientale, in particolare a largo delle coste di Israele, Libano e Siria, che hanno perturbato la catena alimentare marina.