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I don contro Dal Molin
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo articoli che ci vengono inviati da giovani. In questo pezzo, scritto da due ragazzi di San Giuliano Milanese, si torna su una questione dimenticata, quella della base americana del Dal Molin, a Vicenza ove l'opposizione nonviolenta di certi parroci ha portato a qualche risultato. Un’occasione per tornare a riflettere su una storia che non ha perso di attualità e che ci pone ancora di fronte al problema dei metodi di resistenza popolare.
Ci sono avvenimenti che non andrebbero troppo rapidamente dimenticati. E questo vale non solo per le pagine più famose della nostra storia repubblicana – dalla Costituzione ai drammi degli anni di piombo o alla storia della lotta alla mafia –, ma anche per eventi a noi più vicini che sono rapidamente scomparsi dal dibattito pubblico. È questo il caso della vicenda della base americana di Vicenza che, dopo essere stata al centro di un intensissimo e vivace dibattito pubblico che ha coinvolto la città e il Paese, è stata ingiustamente dimenticata dai grandi mezzi di informazione. Come se la ferita aperta in una città da quella vicenda non avesse più nulla da insegnarci oggi e come se, spenti i riflettori sui fatti più appariscenti, gli eventi e le riflessioni che hanno diviso l’opinione pubblica non avessero ormai nessun significato per noi.
Abbiamo avvicinato la storia della base Dal Molin quasi per caso, attraverso un incontro con don Antonio Uderzo che don Marco Carzaniga, parroco di San Giuliano Milanese, ha inteso organizzare per i giovani delle sue parrocchie. Don Antonio, che dal 1988 lavora nella cooperativa sociale Città Solidale di Vicenza, è stato fin dall’inizio una delle figure più significative del movimento che si è opposto alla costruzione della base militare americana nell’aeroporto Dal Molin e l’incontro con lui ci ha profondamente impressionati. Non solo perché don Antonio ci ha avvicinati a una pagina del nostro passato recente e del nostro presente che assolutamente non conoscevamo ma anche perché ci ha fatti entrare all’interno di una storia di resistenza che ha coinvolto cittadini comuni, associazioni, movimenti, organizzazioni, gruppi ecclesiali che si sono opposti a un progetto che risponde unicamente alla logica militare del controllo del mondo e che è lontanissima dalla cultura della pace che dovrebbe stare alla base di ogni democrazia matura.
La vicenda del Dal Molin risale al 2006 quando cominciò lo scontro, non di rado molto duro, tra istituzioni e cittadini sulla costruzione della nuova base americana. L’accordo per la sua costruzione risaliva al 2004, ma fu solo nel 2006 che, con l’approvazione del Consiglio Comunale di Vicenza, la scelta divenne di dominio pubblico. Don Antonio Uderzo aveva intuito fin da subito l’importanza di quello scontro anche per le comunità cristiane che erano attraversate, come tutta la società civile, dal dibattito sulla legittimità della base e sui metodi di resistenza a un’opera che avrebbe fortemente incrementato la presenza militare a ridosso della città di Vicenza. Il via libera al progetto, che venne sancito dal Governo nel gennaio 2007, condusse a una forte radicalizzazione dello scontro, che mise in luce la presenza di due linee di azione nel movimento: su un versante i membri del presidio permanente, che ritenevano necessario giungere a un’opposizione frontale per mantenere alta l’attenzione sul problema e costringere l’opinione pubblica a schierarsi e a prendere posizione contro la costruzione della base; e sull’altro coloro che ritenevano invece più utile e feconda la strada del dialogo con le istituzioni e con tutte le parti in gioco.
A questo dibattito non è rimasta estranea la comunità cristiana che da un lato con don Antonio Uderzo, don Mariano Piazza, don Albino Bizzotto e don Maurizio Mazzetta ha condiviso l’opposizione all’ampliamento della base sottolineando la necessità di creare le condizioni per una resistenza nonviolenta al progetto, e dall’altro ha dovuto fare i conti con una certa freddezza della chiesa ufficiale che ha scelto di non schierarsi apertamente, dando così l’impressione di abbandonare le comunità cristiane che in quel momento si trovavano in prima linea nell’opposizione al Dal Molin.
Il tema della scelta dei metodi nonviolenti, sui quali ha molto insistito don Antonio Uderzo nell’incontro con noi, non è secondaria e ha segnato uno spartiacque anche all’interno del movimento di opposizione al Dal Molin. Per molti aspetti questa è una delle questioni oggi più rilevanti in ogni movimento di opposizione a opere che, come questa, vengono sentite come profondamente contrastanti con gli ideali stessi della democrazia, e per questa ragione il dibattito che per anni ha attraversato il movimento No Dal Molin andrebbe recuperato anche oggi. L’episodio che maggiormente simboleggia la diversità di approccio al problema è forse quello che si verificò il 4 luglio 2009, quando alcuni giovani con il passamontagna tentarono di rompere la protezione dell’aeroporto, con il conseguente intervento di numerosi poliziotti per fermare la rivolta. La città, che fino a quel momento era stata sostanzialmente unita e solidale nella dura battaglia contro la base, s'è trovata divisa tra coloro che legittimavano il ricorso alla forza e coloro, come il gruppo che s'era formato attorno a don Antonio e don Albino Bizzotto, che continuavano a considerare essenziale il rifiuto della violenza. Si colloca in questa linea la staffetta del digiuno che dall’agosto al novembre 2009 ha coinvolto oltre duecento persone che hanno voluto esprimere il proprio dissenso ricorrendo a questo metodo di protesta. Il camper della pace, nel quale si davano il turno coloro che digiunavano, è diventato così un luogo di dialogo, di incontro, di riflessione sugli strumenti di opposizione, sul ruolo dei cittadini nella democrazia, sul valore profetico del messaggio evangelico, sull’efficacia della nonviolenza. Ciò che rattrista è la scarsa attenzione, per non dire l’indifferenza, che ha accompagnato questa scelta di resistenza civile: “Ho sperimentato – ci ha detto don Antonio – l’assenza delle istituzioni, della Chiesa: un silenzio pesantissimo che ti fa sentire solo.” Una marginalizzazione ancora più grave se si tiene conto del fatto che la scelta di digiuno di Don Antonio Uderzo, don Albino Bizzotto (che ha prolungato il digiuno per dodici giorni) e di tutti coloro che ne hanno condiviso la battaglia, pur essendo profondamente nonviolenta è stata guardata con sospetto e non di rado ha dato origine ad atteggiamenti di rifiuto da parte degli organismi ecclesiali: si pensi solo, ci ha ricordato don Antonio, che il 24 settembre 2009 non si è dato spazio al racconto di questa esperienza di resistenza nonviolenta all’interno dell’Assemblea del Clero accampando la ragione che le testimonianze erano già state stabilite in precedenza.
Nonostante questa incredibile mobilitazione, la costruzione della nuova base militare è iniziata, il vecchio piccolo aeroporto è stato raso al suolo e sono state compromesse le condizioni ambientali: sono stati inseriti nel terreno moltissimi pali lunghi venti metri, gli argini del fiume vicino rialzati, costruiti edifici che hanno preso il posto di una grande area verde. Le dimensioni della base in confronto alla città sono enormi. Ai cittadini di Vicenza, che ormai non possono più battersi per impedirne la costruzione, è stato riconosciuto uno spazio che si è deciso di trasformare in un grande “parco della pace”, un’area di 650.000 metri quadrati che il 29 settembre 2011 sono stati riconosciuti al comune di Vicenza che ha affidato la progettazione dell’area al paesaggista tedesco Andreas Kipar, che ha già lavorato a un progetto simile per il parco Tempelhof, ex aeroporto nazista a Berlino. Un’area che dovrebbe assumere un enorme valore simbolico per tutti i movimenti di pace.
La vicenda del Dal Molin non è però la storia di un fallimento.
Primo, perché, come ha messo in luce con noi don Antonio, essa pone seriamente il problema delle modalità di resistenza alla realizzazione di opere che rispondono più alla logica di dominio e di controllo del mondo che a quella del dialogo e della costruzione della pace.
Poi perché ha riportato l’attenzione della comunità cristiana sulla radicalità del messaggio evangelico e sulla necessità, per i cristiani, di prendere posizione, di lavorare per la costruzione di un futuro a misura d’uomo, di promuovere il comandamento evangelico della pace. Nonostante tutto, ha ricordato don Antonio, “esiste una piccola comunità di credenti, preti e laici, che resiste, che continuerà a credere e ad annunciare l'amore, la pace e un modo diverso di vivere”.
Infine perché si tratta di una vicenda che solleva il problema globale del controllo del mondo. La base del Dal Molin non è l’unica base militare del mondo. Solo gli Stati Uniti hanno, in oltre cinquanta Paesi, più di settecento basi militari: un numero che dovrebbe farci pensare sugli equilibri dopo la guerra fredda e sul controllo che in generale le grandi potenze continuano a esercitare su vaste aree del pianeta. Una questione serissima, che richiama il problema della sovranità dei singoli Stati e degli equilibri militari che ancora oggi governano il mondo.
Più che dimenticarla, insomma, della storia del Dal Molin si dovrebbe far tesoro, per ricominciare da lì a riflettere sul rapporto fra la democrazia e gli equilibri militari, sul valore della partecipazione popolare e sulle modalità di opposizione in un Paese democratico. Insomma, sui fondamenti e i metodi per la costruzione della pace.
Benedetta Mori e Mirko Magnaghi