www.unimondo.org/Notizie/Etiopia-il-calvario-senza-fine-dei-borana-262984
Etiopia: il calvario senza fine dei borana
Notizie
Stampa

Foto: Unsplash.com
Dal 2021 sono andati perduti oltre 4 milioni di capi di bestiame, e intere comunità, oltre un milione di persone, sono state costrette a vivere in campi di sfollati interni. Una situazione aggravata dall’indifferenza di Addis Abeba nei confronti della perdurante crisi umanitaria. Ma che favorisce interessi commerciali su larga scala.
Sono scemate finora le speranze che il governo di Addis Abeba intervenisse per mitigare la situazione di siccità e carestia che da anni si protrae nella regione sud-etiopica dell’Oromia, abitata dai borana.
Una speranza nutrita da centinaia di migliaia di sfollati che si illudevano potesse diventare realtà una volta risolto il conflitto tra lo stato-regione del Tigray, nel nord-ovest del paese, e il governo federale di Addis Abeba.
La guerra, nella quale si stima che un milione di persone abbiano perso la vita, provocando la fuga di altri milioni e un danno economico stimato in 28 miliardi di dollari, aveva accentrato tutta l’attenzione e le risorse del governo.
L’amministrazione di Abiy Ahmed non aveva né la volontà politica né la capacità di riconoscere ulteriori crisi, tra le quali per l’appunto il sud-est e la regione somala sui confini con Kenya e Somalia.
Queste aree sono abitate soprattutto da popolazioni tuttora dedite per lo più alla pastorizia e all’allevamento. La scarsa presenza del governo centrale in questi territori si spiega oggi anche con le perduranti condizioni di instabilità politica e di conflitto non più in Tigray ma nello stato-regione Amhara, in vaste aree dell’Oromia e nel Benishangul-Gumuz, sul confine con il Sudan.
Pastorizia e allevamento sono tradizionalmente le attività più comuni in un sistema di mercato ampiamente informale e profondamente radicato nello stile di vita di molte comunità semi-nomadi, non solo tra i borana ma in gran parte del Corno d’Africa, che conta oltre all’Etiopia, Eritrea, Somalia, Gibuti e Sudan.
Il bestiame grande e minuto in questi paesi non costituisce solo una risorsa economica, ma è una forma di ricchezza generazionale, intrisa di memoria, attaccamento e significato culturale. Gli animali allevati non sono solo merci, sono parte integrante dell’identità pastorale e della sopravvivenza dei membri della società.
Nel commercio e nel mercato, i pastoralisti adottano un approccio strategico nella vendita dei loro animali. Capre e pecore servono come fonte immediata di denaro, mentre i bovini vengono venduti per transazioni finanziarie più consistenti. I cammelli, d’altro canto, gli animali di maggior valore economico, costituiscono una preziosa riserva per le situazioni di crisi più gravi, rappresentando una sorta di risparmio a lungo termine...